Lungo la collina di un antico zuccherificio in Brasile si apre una ferita. L’ha scolpita Juliana Notari scavando nella terra una ferita che richiama per somiglianza una vulva. In poche ore la scultrua fa il giro del mondo. C’è chi applaude e chi si scandalizza. Siamo più abituati ai simboli fallici, di fatto non fanno scandalo le torri, gli obelischi o i pali della luce.
Sudamerica freme. L’Argentina —primo paese del cono sud a farlo— ha legalizzato l’aborto quando quest’opera viene presentata al mondo. Una ferita lunga trentatré metri, larga sedici e profonda sei, ricoperta di cemento e resina. Non è il taglio pulito di Fontana ma un taglio slabbrato, scavato a mano nelle viscere di una terra arsa, si apre rossa nel paesaggio e si riflette sul pozzo d’acqua ai piedi della collina.
Un buon augurio per una ferita è che si chiuda. Ma non per questa. Questa vive nei resti dello zucchero, che ha la capacità di tenere pulite le ferite — lo sapevano coloro che imparavano dall’osservazione e mantenevano vivi i saperi attraverso il racconto —, e resterà aperta come un invito a pensare e dialogare intorno a tutto ciò che è ancora ingiusto, che duole e sanguina, sotto il sole cocente di Pernambuco.
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Ci siamo incontrate con l’artista Juliana Notari su skype dove abbiamo conversato lei in portoghese e io in spagnolo con l’ausilio di parole di altre lingue.
Parli un po’ d’italiano, come l’hai imparato?
Vent’anni fa sono stata a Milano, mi è piaciuta molto. Sono stata all’atelier di Giorgio Upiglio. E’ stata una tappa molto importante nella mia formazione. Lui è un incisore storico, artisti come De Chirico e Picasso hanno inciso da lui.
Dove vivi ora?
Sono tra Rio de Janeiro, Recife e Parà, nella regione amazzonica.
Ti aspettavi la ripercussione mondiale che ha avuto Diva?
Aspettavo una reazione perché so che è un lavoro provocativo, ma non così tanto forte e così rapidamente. Mi ha stupito la capacità di disseminazione di un evento locale in tutto il mondo e in così poco tempo.
In Brasile com’è stato?
La situazione attuale in Brasile, la congiuntura politica, sociale e morale, più la recente legalizzazione dell’aborto in Argentina, hanno incendiato gli animi dei settori reazionari. Il tutto ha creato uno scenario propizio per forti reazioni. In un altro momento probabilmente sarebbe stato diverso.
Una reazione meno forte?
Ci sarebbe stata comunque una reazione e non per il sesso, non per la vulva, ma perché è intorno alla donna che si genera una reazione. La donna ha una storia di duemila anni di patriarcato, di repressione, di violenza e di ipocrisia. Riguardo all’aborto, per esempio, questo governo è contrario, ma pure il Ministero della Donna sa che il fatto che sia illegale perpetua solo una ferita, dove continuano a morire le donne povere.
Perché il nome Diva?
Perché questa produzione artistica, questa forma di ferita, di vulva, nasce da un mio lavoro di tanti anni fa. Io avevo trovato, in un luogo di periferia dove vendevano cose usate, più di venti speculi ginecologici di metallo che avevano su scritto Dra. Diva, il nome della ginecologa. Allora chiamai così il mio lavoro, in cui intervenivo inserendo uno speculo a martellate su una delle pareti della galleria, del museo, come se quella costruzione, quello spazio, fosse il corpo della donna.
Cosa volevi dire?
Volevo parlare della violenza che c’è nella società patriarcale. Il patriarcato non è l’uomo, è una macchina che sta ovunque. Sta negli uomini, nelle donne, nel modo di tirare su i figli, nelle leggi del paese, nelle istituzioni.
Dici in alcune interviste che Diva è una ferita, non una vulva. Lo dici per alleggerire, c’è qualche timore data la situazione?
No, io non ho paura. Non è una vulva. Perché fare una vulva in una montagna? E’ la ferita che apre un campo d’interpretazione. Nel mio lavoro la questione della violenza è sempre molto forte. La questione della ferita, in questo lavoro principalmente, apre un campo di riflessione verso altre questioni.
Diva è una grande ferita in quell’antica usina, che era una monocoltura di zucchero. Ci sono più ferite in questo posto, ferite coloniali, la schiavitù. Ti dirò di più: è più ferita che vulva.
A proposito di ferite coloniali, c’è stata qualche polemica riguardo una foto che hai pubblicato.
Sì, la donna bianca e i neri dietro lavorando, ma quello è un ritratto della realtà. Non l’ho pensato così in quel momento. Era una situazione bella, stavamo tutti lavorando e poi sono arrivate le critiche. Non cancellerò quella foto. L’arte è parte della società e la riflette. In qualsiasi luogo del Brasile, dalla costruzione civile a un set cinematografico, chi sta facendo il lavoro meno pagato, meno qualificato, sono i neri, perché non c’è stata una vera abolizione ma una finta abolizione, perché non hanno avuto accesso alla terra, non hanno avuto una riforma agraria, accesso alla salute, all’educazione. Sono dovuti andarsene nelle favelas, nelle periferie. E muoiono ad ogni istante. Quindi il problema non è Diva, se vulva o ferita, il problema è strutturale.
Le ferite sociali vanno guarite. E la vulva interpretata come ferita?
E’ una ferita aperta, per sempre, allo stesso tempo in lei si entra, da lei si esce, lei genera, dona. E’ molto interessante in questo senso il rapporto della terra con la vulva, che provee e accoglie. E’ vita e morte allo stesso tempo. La terra che dà i frutti è la terra dove tornano i morti.
La terra che hai scelto è particolarmente ferita.
La coltivazione della canna di zucchero è un processo violentissimo, che depreda il terreno, elimina ogni diversità, perché per preparare il terreno va bruciato con il fuoco. Il progetto della Usina de Arte, che mi ha chiamato per fare questo progetto, è proprio quello di reforestare quella terra, con giardini botanici e con arte, con la partecipazione di artisti nazionali e internazionali.
In rete a volte c’è la sensazione che qualsiasi cosa si faccia sia sempre sbagliata. Cosa ne pensi di questo strumento?
La rete è un grande calderone. Lì ci sono dalle critiche più matte, bizzarre e odiose, fino alle critiche più costruttive ed elaborate, dalle quali nascono dialoghi interessanti. Vengono da destra, da sinistra, da tutte le parti, ed è bello. Questa è democrazia. Ma allo stesso tempo c’è la manipolazione mediatica. Ci sono eserciti di robots che commentano informazioni false. C’è tanta ignoranza che questa tecnologia agevola.
Avrai ricevuto anche critiche poco educate.
Anzi, molto violente. Mi hanno detto anche che avrei dovuto essere abortita e cose del genere. Ma non ho paura. C’è stata una critica che mi colpì, perché era un testo molto elaborato ma molto aggressivo. Dopo, quando ho capito quale era la intenzione, mi sono protetta emotivamente.
La funzione dell’arte?
L’arte è provocazione. Non deve dare risposte ma allevare domande, frizioni, altre forme di vedere, di stare al mondo, di sentire. Franco Berardi parla dell’effetto terapeutico dell’arte in quel momento che la gente vive. Un effetto che non è quello della terapia che trata il soggetto per renderlo funzionale, perché produca, perché giri bene nell’ingranaggio. E’ un altro tipo di terapia, che possiede la capacità di creare sensibilità, da dove poi può nascere l’empatia, così mancante e necessaria in questo periodo. La capacità di presentare domande e aprire il dialogo, senza che debbano esserci risposte o certezze.
Mercedes Viola