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Se non è lupus. Vecchi e nuovi sogni di gloria, i medici seriali in TV.

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Mai come oggi la medicina ha bisogna di voce. Ne ha bisogno perché è scienza condivisa che porge le proprie acquisizioni e chiede di collaborare con la gente. Pone domande, aspetta le reazioni dei (potenziali) pazienti, riceve quesiti e prova a fornire a sua volta risposte attendibili. Per tutti noi conoscere o meno un’informazione, e conoscere quella giusta, fa la differenza. Uno studio statunitense ha dimostrato che le donne con tumore al seno con un livello personale di cultura medio-alto hanno maggiore probabilità di guarire: i soldi non c’entrano, si tratta della capacità di reagire alla malattia scegliendo le soluzioni migliori per il tempo e la condizione clinica. Avere un po’ di cultura significa essere abituati a riflettere e non affidarsi alla prima proposta che si trova.
Penso che gli intellettuali, ammesso che esistano, si dividano di loro volontà in due gruppi principali: i comunicatori e gli eremiti. L’eremita si autodefinisce geniale, e forse lo è, ama parlare solo con i propri simili (che sono pochi) e opera sul linguaggio azioni di cesello e complicazione atti a escludere la maggioranza delle persone. Ha il diritto di comportarsi come gli pare (questo diritto inalienabile andrebbe riconosciuto a chiunque, senza giudizio), divulgare cultura e contenuti non gli interessa. Di solito, quando si trova a confrontarsi con la malattia incorre in errori perché ricerca nomi illustri con una serie di titoli altisonanti sul ricettario ma non si pone il problema di approfondire se le cure proposte siano le migliori. Il comunicatore invece assomiglia a Carver: magari è intellettuale (aspetto da voi suggerimenti su cosa sia l’intellettuale, ma siate originali e non copiate numeri recenti di “alfabeta2” perché li ho letti), magari nella vita privata frequenta suoi simili con una cultura elitaria, ma ha nel cuore la voglia di comunicare. Se non rende semplice ciò che scrive non è contento, bada al senso e al significato e a quanti lettori/ascoltatori riusciranno a comprendere il messaggio.
Chi si occupa di scienza e medicina e decide di comunicare non può avere scelta. O è pronto a sciacquare lo stile piegandolo alla necessità di chiarezza o dovrebbe restare chiuso nei corridoi degli ospedali o dei centri di ricerca. “Lei soffre di una neoplasia connettivale con reazione flemmonosa cutanea” non è altro che “lei ha un tumore dei tessuti connettivi (con relativa spiegazione su cosa siano) con una raccolta di pus nella pelle”: chi abbia orrore a tradurre la prima forma nella seconda perché sente di tradire la laurea e le due o tre specializzazioni non è un comunicatore. Il comunicatore mette prima la ricezione del messaggio da parte dell’ascoltatore e solo dopo il proprio ego istruito. Per questo ho sempre amato e difeso le differenti forme creative che sono state usate per raccontare la scienza e la medicina. Una delle più efficaci, proprio perché potenzialmente in grado di arrivare alla maggioranza della popolazione, è la serie televisiva. Quella che tutti sbirciano e pochi ammettono di guardare. Perché non è chic, perché con gli intellettuali c’entra niente. Eppure esiste, e non c’è bisogno di riandare con la mente a Salvo Montalbano per convincersi che abbia una dignità di opera letteraria con trasposizioni efficaci e godibili nel palinsesto televisivo.
L’elenco delle serie a carattere medico è relativamente lungo, anche se l’associazione di idee immediata è con “Dr. House” e “ER Medici in prima linea”. Fermiamoci su House: uno degli aspetti più interessanti è l’accuratezza dei dettagli medici. Le diagnosi sono vere, i ragionamenti e gli esami che stanno alla loro base hanno realismo assoluto. Funziona proprio così. Non si sorvola sulle possibilità, sui motivi per confermare o escludere un’ipotesi, sui momenti di incertezza e discussione tra colleghi, sulle bugie inconsce o volontarie dei pazienti, sulla rimozione e la voglia di primeggiare di chi indossa un camice (anche solo metaforico). Nel tempo, House è riuscito a entrare in tutte le case e a suggerire l’idea che la medicina sia il risultato di ragionamenti e dubbi, di consulenze collegiali che prendono la mira, sbagliano, indovinano, buttano sul tavolo diagnosi possibili e verificano i dati. La medicina è gruppo perfino quando esiste un leader indiscusso: lungi dall’essere comprimari, i colleghi sono il contraltare necessario per una mente che ha bisogno di funzionare con il rimbalzo continuo di idee e silenzi. Grazie alle caratteristiche fisiche e caratteriali di House, la serie ha posto domande interessanti sui processi decisionali nelle corsie degli ospedali e sul rapporto medico-paziente: è più importante che il medico sia preparato oppure che sia empatico e disponibile al dialogo? La vera forza di House, prodotto per la Fox e ormai successo mondiale, è l’apertura agli specialisti della medicina: Lisa Sanders, un’assistente clinica e professoressa alla Yale School of Medicine, è supervisore tecnico della serie ed è la scrittrice della rubrica Diagnosi che ha ispirato la premessa della serie, Bobbin Bergstrom, una vera HYPERLINK “http://it.wikipedia.org/wiki/Infermiera” infermiera, è supervisore medico del programma ed è apparsa sul  HYPERLINK “http://it.wikipedia.org/wiki/Set_(cinema)” set, nel ruolo di infermiera, in 97 episodi. Gli sceneggiatori sono diventati esperti di medicina, capaci di dare corpo a puntate la cui profondità scientifica impressiona anche i tecnici del settore. “Dr. House” ha titolo a essere definito opera di creatività e strumento di divulgazione: ho il sospetto che parole come “lupus” e “malattia autoimmune” abbiano raggiunto la coscienza collettiva proprio grazie a House.
Il tentativo di produrre una serie il cui contenuto medico fosse certificato da specialisti ha riguardato anche l’Italia. Qualche anno fa, Pietro Valsecchi di TaoDue creò “Crimini bianchi” e chiamò Paolo Cornaglia Ferraris e me quali consulenti medici alla sceneggiatura. Banalmente potremmo dire che l’argomento della serie fosse l’errore medico, ma la realtà è un’altra. La serie si proponeva di analizzare le ragioni e la dinamica dei possibili errori, veri o presunti, e le reazioni dei medici e dei pazienti. Voleva provare a comprendere cosa accadesse nei processi decisionali della diagnosi e della terapia, quali pressioni potessero portare a errore e soprattutto se l’eventuale responsabilità stesse sempre e solo da una parte (quella del medico). La trama ruota intorno alle vicende di alcuni medici che hanno dato vita a un’associazione che aiuta i pazienti vittime di malasanità e si trova a indagare in casi talvolta drammatici, dovendo definire se sia esistito o meno l’errore e quali diritti siano stati violati: niente di diverso rispetto alle attuali unità di rischio e crisi presenti negli ospedali e istituti clinici più quotati.
Ricordo i tempi del lavoro a “Crimini bianchi” come una crescita personale e professionale importante. Avevo l’opportunità di mettere insieme la competenza medica e la professione creativa, mi trovavo a contatto quotidiano per lunghe ore con sceneggiatori della levatura di Giorgia Mariani e Dante Palladino che mi insegnavano il rigore, la serietà, la libertà della costruzione di una trama ineccepibile e intrigante e mi chiedevano di essere con loro nell’immaginare corpi vivi, malati, sani, dialoghi credibili e situazione a livello del mitico House. TaoDue voleva che fossimo all’altezza, che il “non è lupus” non fosse più soltanto americano. La diagnosi differenziale, i piccoli o grandi trabocchetti del ragionamento clinico, le cure e le aspettative si intersecavano con giochi di costruzione degli episodi, spaccati di sentimento, squarci di colpi di scena con la regia fulminante di Alberto Ferrari. Il prodotto che ne uscì non può essere giudicato da me che ne ho fatto parte, ma un giudizio indiretto è questo: negli ospedali i corsi obbligatori per il personale sanitario proiettano tuttora intere puntate perché hanno saputo inquadrare i punti critici e determinanti dell’errore (o non errore).
Purtroppo la sorte mediatica di “Crimini bianchi” fu piuttosto misera. Nonostante il cast (Daniele Pecci, la cui innata capacità di immedesimarsi nel medico mi colpì dal primo ciack, Ricky Memphis, Christiane Filangieri, Micaela Ramazzotti e altri nomi di livello), lo share fu basso e alla sesta puntata Mediaset ne interruppe la programmazione. Fu poi ripresa l’anno successivo (2009) sul digitale terrestre ma non ebbe il risalto di altre produzioni TaoDue. E’ vero che è il pubblico a decretare l’insuccesso di una trasmissione, e il pubblico è sovrano. Quindi abbiamo fallito. Tuttavia non mi abbandona la sensazione che in questo parziale fallimento vi siano elementi interessanti. Uno è la reazione di alcune categorie di medici che presero posizione ancora prima di conoscere il contenuto: la serie non era nemmeno andata in onda e già ululavano in ogni possibile contesto, si parlava di errore medico e tanto bastava perché lanciassero diffide al produttore e addirittura ai pazienti, guai a dare seguito a un’opera del genere! La conseguenza fu, purtroppo, la conferma di una delle tesi della serie: accade che i medici neghino l’evidenza per difendere la casta. Mi stupii ma non troppo, mentre più sorprendente era che i tanti che si riempivano la bocca della parola “malasanità” (senza conoscerla sul serio) non si dessero la pena di guardare.
Un altro elemento è, credo, il tono con cui la serie fu lanciata: lavoro in comunicazione da anni e so che è necessario fare rumore, ma non “così tanto rumore”. Personalmente avevo scelto di essere consulente amando la professione medica e credendo allo scopo degli sceneggiatori: comprendere senza giudicare. E magari sottolineare che non sempre la malasanità fosse reale. Soprattutto non volevo che quella consulenza fosse usata come cassa di risonanza per una popolarità personale. Mi resi conto che non per tutti era così, e per questo la parola “errore” non era più trattata con equilibrio. L’argomento reale fu tradotto in “la fiction di denuncia sui medici che sbagliano”: come impedire che vi fossero ostracismo e rifiuto? Ci fu poi una scelta di palinsesto infelice (poche trasmissione messe in competizione con partite di calcio internazionali reggerebbero) e il crollo fu completo.
Comunicare la medicina non è scontato e nemmeno facile. Se azzardo un paragone tra “Crimini bianchi” e “Dr. House” vedo che l’Italia ha sceneggiatori e registi che niente hanno da invidiare agli Stati Uniti, chiunque abbia voglia di dare un’occhiata ai casi clinici potrà trarre analoga conclusione. Il problema è che in “Crimini bianchi” l’Italia ha tentato di essere se stessa ancora una volta: invece di raccontare gli ospedali nella loro complessità, magari con qualche scivolone ma con il sottofondo rassicurante della competenza scientifica, ha voluto concentrarsi sull’errore, sull’abisso nero che ci mette in pericolo. Perché se i medici sbagliano non possiamo più fidarci di nessuno. L’errore no, proprio non si deve guardare.

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