Ci sono case che accolgono, curano, si fanno porto di consolatori arrivi o dolorose partenze, rimangono, nell’idea di chi le abita – o vi è abitato – immutabili, quinte solide sullo sfondo.
Nel tempo però, con l’avvicendarsi delle generazioni, perdono fissità, vengono piegate alla funzionalità o ai capricci di un’estetica corrente: si vedono privare di muri interni, i corridoi diventano obsoleti.
Sventrate, rimodellate, irriconoscibili, daranno spazio a altre persone, altri vissuti: Daniele Petruccioli, per il suo straordinario esordio in narrativa meritatamente candidato al Premio Strega e selezionato dalla giuria dei letterati del Premio Campiello 2021, sceglie di raccontare così, tramite i cambiamenti fisici delle abitazioni in cui tutto accade, la storia di una famiglia che ruota suo malgrado – allontanandosi e riavvicinandosi in moto centrifugo e centripeto perenne – attorno a due gemelli, Elia e Ernesto, il primo il fratello sano, il secondo, toccato da una manovra sciagurata di un giovane medico al momento della nascita, manchevole, perennemente in bisogno di cure.
Abitano una casa grande. Deve essere stata una casa sfarzosa, si capisce dalle voragini delle doppie porte in infilata, in un rincorrersi di promesse da boudoir, unioni e separazioni di altri tempi. Questi tramezzi stanno tutti per essere buttati giù. Lasceranno spazio a divisori asimmetrici, a un senso delle forme meno prospettico e più articolato, ambivalente, che si vuole più moderno. […] La cucina è ancora bianca, non sa che un giorno sarà blu e poi più niente perché il perimetro della stanza verrà destinato ad altri usi […] seguendo motivazioni di vendetta, di nostalgia.
La storia prende l’abbrivio da un’assenza, si sta approntando il funerale del notaio, il capostipite della famiglia, morto dopo un anno di spegnimento lento o veloce, a seconda dei punti di vista, con la bara accolta in una delle stanze maggiori. I gemelli, ancora piccoli, non comprendono la tragicità del momento: è anche il giorno del loro compleanno, esigono e otterranno una loro festa ma per il momento vanno blanditi, distratti, qualcuno li prenderà in cura. Non lo farà né la madre, né il padre, ma la portiera: le mani già nodose e con qualche ruga, benché ancora senza le scavature profonde della vecchiaia che assumeranno nelle atrocità di altri anni, spostano con sicurezza il pentolino in cui sobbolle il centimetro e mezzo di zucchero squagliato dalle fiamme. Zucchero d’orzo viene chiamato, in virtù di chissà quale incrocio di nomi, di esperienze, di penuria che risale forse all’ultima guerra (ancora, felicemente, l’ultima). Ai bambini non è dato saperlo e come al solito nessuno gli racconta niente e loro lo accettano così, come una magia di c dure da rompere con i denti e che poi sciolgono in o di meraviglia, tra la dolcezza fluida delle z. Il pentolino veleggia sopra il tavolo di marmo, sopra gli stecchini, e lascia colare il suo contenuto bollente in polle marroni che, indurite e staccate delicatamente dal ripiano, si trasformeranno in lecca-lecca capaci di scacciare anche la morte.
La vita vince, per il momento: avranno i festeggiamenti, la promessa torta colorata, e serberanno il primo dei ricordi di cui si intesse il romanzo sulle cui vicende all’inizio troneggiano due donne in perenne conflitto tra loro. Sono la madre, Sarabanda – sfrontato spirito libero, del tutto inadatta alla vita pratica, anarchica e smemorata – in aperto, perenne conflitto con Iride, la nonna paterna, austera, patriarcale, quella che sa preparare un pranzo, che dispensa sapori complessi (che si faranno nel tempo madeleine) e imposizioni, alleanze e ostracismi e che non si capacita perché l’amore e l’attrazione possano esaurirsi, perché la nuora abbia lasciato il figlio senza un motivo plausibile, un tradimento, niente. Che soprattutto vede Sarabanda fallata come madre, al contrario di lei che invece ha messo al mondo solo maschi perfetti. Fra questi, l’ex marito di Sarabanda e padre dei gemelli, appunto, il vacuo Speedy, bellissimo e sfuggente prima di tutto a se stesso, un narciso la cui massima ambizione in vita è essere corteggiato sulla pista da ballo.
Una figura che contrapposta a quella della moglie – in un gioco rifranto di doppi, è un libro di coppie, in fondo – e col dipanarsi della storia scolora, mentre emergono, potentissime, le immagini indimenticabili dei gemelli Elia, abituato – tragicamente – a esistere per due, azzoppato dal surplus di attenzioni da dedicare al fratello, e Ernesto, che non si vuole qui anticipare forse piegherà il proprio destino o forse si perderà, figura intensa e tragica che nessuno riesce a scalzare dal suo delirio costruito così bene, da quella bella cosmogonia del suo dolore.
Tra i fratelli sarà tutto un inseguirsi tra attrazione e moti di rabbia, rancori e inimmaginabili manifestazioni di amore, un rincorrersi e cercarsi anche da adulti, cacciandosi spasmodicamente via e altrettanto spasmodicamente cercando un qualche modo di toccarsi.
Cresceranno prendendo vie impensate, proveranno pulsioni permeabili, liquide, irregimentate, per Elia anche prossime all’amore in un rapporto a tre di iniziazione al sesso in pagine vivide, di linguaggio essenziale e partecipato. Pagine di esercizio alla vita, di sperimentazioni, in cui Petruccioli eccelle e misura e pesa – anche qui – ogni parola, evitando eccessi, l’immagine di facile presa, schiudendo al suo protagonista la vita, il suo mistero, la sua terribile bellezza.
Un’esperienza che esclude Ernesto, che ritroverà Elia solo per affrontare un’ennesima prova: la malattia della madre, con la pietà per un corpo che tradisce, cedendo, e la rabbia per il rovesciamento dei ruoli, il dover prendersi carico di chi agli occhi di un figlio pare esista solo per dare.
È materia delicata quella che Petruccioli maneggia con inarrivabile cura, consegnandoci un romanzo di formazione costruito alla perfezione.
La casa delle madri edita da TerraRossa nella collana Sperimentali (che accoglie peraltro altre pubblicazioni di pregio) è un esordio notevolissimo, un piccolo miracolo in cui l’autore, tracciando le vicende di una famiglia che potrebbe essere quella di tutti, mai cede alla banalità, né scivola nella tentazione di un facile pietismo, o nella retorica.
Nel flusso del tempo deflagrato – che come i personaggi si autorincorre, avanza e arretra – e nel bisogno del recupero del ricordo e della difficile ricostruzione del sé dei suoi personaggi che si fanno indimenticabili, si percepisce – e da lettori ci si bea di – un certosino lavoro sulla parola.
Petruccioli, che è anche eccellente traduttore dal portoghese, sceglie di avvalersi di un linguaggio piano, contenuto, pulito a individuare – e riportare – ogni grado delle emozioni, ogni discontinuità e fragilità dei suoi protagonisti in una prosa meravigliosamente controllata, puntuale, complessa finalmente (in controtendenza, in una qualche misura). Matura e personale, già molto felicemente riconoscibile.
La casa delle madri è uno dei romanzi italiani più belli degli ultimi anni.
Anna Vallerugo