Giorgio Agamben redige il saggio La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843 mettendo in chiaro dal principio quali siano le sue intenzioni e dove voglia accompagnare il lettore. In questo caso non è un eufemismo dire “per mano”, alla riscoperta di uno dei poeti che più hanno segnato la storia della letteratura europea.
Ripreso, strumentalizzato, ma anche innalzato oltre l’empireo da correnti filosofiche, linguistiche e filologiche, Hölderlin pare sia una di quelle personalità che non fa discutere solo mentre è vivo, ma anche dopo non si è mai stati capaci di lasciarlo riposare.
Accusato di essere pazzo, visto come strano dalla sua stessa madre (condizione che rende tali anche solo per sentir venir meno chi prova, con spirito infermieristico, a farlo rinsavire), venne ripreso, riletto e reinterpretato alla luce delle nuove filosofie nazionali e alla luce della nuova corrente romanzesca (e dell’esistenzialismo) che rese noto il poeta del Baden in tutto il Vecchio continente, grazie anche alla serie di conferenze di Heidegger promosse negli anni Trenta del Novecento per dare luce al suo Hölderlin e l’essenza della poesia (1936).
Quello che Agamben si prefigge di portare a termine, almeno per quanto traspare dalle pagine del Prologo (vera sostanza ecdotica del saggio), è redigere la cronaca del viaggio di una mente che è stata troppo a lungo creduta malata. Caratteristica che – e l’autore redarguisce ogni lettore troppo affrettato e pregiudizievolmente accusatorio – non poteva essere accolta come assoluta, se non addirittura andava eliminata del tutto.
Ma andiamo per gradi. Quanto l’autore spiega già dal principio è che il suo intento è di redigere una cronaca, delineando lucidamente e in maniera storicamente precisa quale sia la differenza tra metterla per iscritto e cercare di scrivere una storia. E già il primo parallelo con la vita di Hölderlin fa capolino. Sì, perché fu il poeta stesso a definirsi in quanto persona al di fuori della storia. Avere una posizione di questo tipo, come spiega Agamben, significa “cronachizzare” la propria esistenza non facendo distinzione tra res gestae e historia rerum gestarum.
Nasce tuttavia da questa prima definizione di un poeta oltre il consueto, un dubbio – che sarà ciò sul quale farà leva il nostro autore – sulla veridicità intrinseca o meno della cronaca.
Per scrivere la storia necessarie diventano le fonti, ma per redigere una cronaca necessarie sono le voci, le lettere, le pagine di diario, quello che si racconta in paese e le chiacchiere da bar. Non ha importanza se ciò possa o meno essere vero, questo è quanto si sa. E in tale senso è strutturato il saggio.
Partendo da un paio di capitoli introduttivi, in cui si spiega il contesto, il pensiero e la forma presa dalle cose nella vita di Hölderlin, si arriva a un commento e a una spiegazione di quanto alcuni reperti narrano sul nostro soggetto. Lettere, pagine di diario di personalità vicine o anche solo di chi l’ha visto di sfuggita ed esprime le sensazioni che solo una vita, il cui specchio di luce è tanto intenso, può far cogliere. Insomma, un “tutto il sentito dire su Hölderlin” che viene puntualmente contestualizzato e analizzato.
Con una astuta virata, già dalle prime righe Agamben mette in dubbio tutti i pregiudizi nati sulla figura del suo soggetto, quindi utilizza l’insufficienza razionale dello strumento che lo descrive, ma che è l’oggetto stesso dal quale nasce la sua analisi: se le cronache ci rivelano la pazzia di Hölderlin, lui utilizza quelle stesse cronache per dire che così non era. Esperimento quanto mai difficile da praticare perché è un’arma a doppio taglio che non lascia prigionieri.
Tuttavia Agamben avvalorerà la sua tesi e darà adito al suo scetticismo al riguardo, facendo leva sulle lettere delle personalità più vicine a Hölderlin (come Sinclair) e tracciando quella che diventa una linea teorica del ragionamento dell’artista il quale mantiene una traiettoria costante. Caratteristica che difficilmente, dice l’autore, può essere riscontrabile in chi è affetto da follia.
Curiosa scelta quella di scomodare i giudizi di personalità quali Goethe o Hegel per avvalorare la sua tesi. Un osservatore poco attento darebbe la precedenza al principio di autorità, quindi considererebbe tale il nostro pazzo del Baden, in quanto così descritto dalle pietre guida della tradizione letteraria e filosofica ottocentesca.
Tuttavia, partendo dal giudizio di Goethe sulla traduzione di Hölderlin dell’Edipo e dell’Antigone di Sofocle (iperletteraria, tanto che anche oggi molto faticheremo a comprendere) e dal giudizio di Hegel sulla teoria di Idillio tragico promossa dal nostro soggetto, si dipana la matassa che confermerà quanto teorizzato da Agamben. Con ciò si avvalora la lucidità di chi riesce anche solo a concepire collegamenti e ragionamenti così complessi, che furono in grado di destabilizzare quelle considerate ancora oggi come tra le menti più geniali della storia dell’umanità.
Il fatto linguistico occupa altresì un luogo importante nel saggio su La follia di Hölderlin. Certo che con una lingua così precisa un ragionamento non può che essere lucido, come teorizza lo stesso poeta tedesco, ma per chi volesse riportare il tutto in un altro idioma, come fa Agamben in italiano, questa precisione inizia a venire meno. La bravura del saggista qui sta nella capacità di provare una (seppure ardua) traduzione e riportare il termine in tedesco. Questo espediente lo ritroviamo nei ritagli delle cronache (per intero in lingua originale) così come nella trascrizione della corrispondenza epistolare.
Si voleva fare un viaggio nella pazzia e lo si è fatto. In maniera del tutto lucida, come farebbe il definito pazzo Hölderlin. Riuscendo a rendere del tutto geniale la normalità di una mente eccelsa.
Lorenzo Bissolotti
Recensione al libro La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843 di Giorgio Agamben, Einaudi 2021, pagg. 241, € 20