Una restituzione. Si potrebbe definire in questo modo Abbandonare un gatto, breve racconto-memoir “inedito” firmato Murakami Haruki. Lo si intuisce fin dalle prime battute e se ne ha la certezza appena si passa oltre il ricordo aneddotico della gatta abbandonata sulla spiaggia giapponese di Koroen.
Murakami, forse il più letto fra i narratori giapponesi qui in Italia (Banana Yoshimoto? Non pervenuta), lo ha scritto ritornando alla figura del padre, per restituirle non tanto il sostrato edipico – che appare solo lateralmente nello scorrere delle pagine – ma la solidità di una esistenza come tante eppure carica di eventi. Ecco quindi che si compie la restituzione.
Non ci troviamo perciò a leggere la storia dell’abbandono di un felino decisa per liberare gli spazi domestici, ma dentro il ritrovare e rendere pubblica anche a se stesso la memoria della figura paterna da parte di uno scrittore affermato.
Una memoria che ritorna inaspettatamente a casa proprio come fa la gatta, lasciando meravigliati i componenti della famiglia e li convince a non scacciarla più.
Probabile sia qui il perché non si parlerà praticamente più del felino (tranne rari accenni) per tutto il resto di Abbandonare un gatto: è solo la miccia della storia, solo la metafora necessaria perché il racconto biografico venga apparecchiato.
Lampante poi come il racconto, pubblicato da Einaudi a ridosso del Natale 2020, non abbia nulla dei romanzi di Murakami (basta metterlo a confronto con i nove pezzi presenti nel nuovissimo Prima persona singolare).
Possiamo dirlo senza ci sia alcuna connotazione negativa nell’affermazione, sottolineando inoltre come l’autore si tenga qui stretto al versante storico-cronachistico della narrazione. Ancora, proprio il ripercorrere la memoria del padre in maniera partecipe ma senza epica, lo offre agli occhi del lettore come restituzione.
Da un altro punto di vista Abbandonare un gatto si può leggere come un racconto sulla senilità, sulla incontestabile certezza di essere arrivati vicini a toccare l’età del genitore.
Senza mai dichiararlo, Murakami narra della necessità di chiudere i conti, di venire ai patti con i ricordi del genitore che riaffiorano alla mente e di licenziarli così da potersi rappacificare con quella figura e con con se stessi.
Anche per questo insisto sul termine di “restituzione”.
Dare spazio alla figura genitoriale in un testo che vuole essere racconto non finzionale, porta appunto a quel chiudere un cerchio attraverso il recupero di alcuni eventi e di alcuni ricordi, di cui l’autore non si appropria mai preferendo tenere la distanza della cronaca.
Così facendo, descrive con la massima sobrietà il passaggio da compiere per accettare la futura discesa verso l’ultimo miglio della nostra esistenza.
Murakami però scrive nella nota finale: «questa vicenda io non l’ho raccontata con l’intenzione di trasmettere qualche messaggio». Affermazione ben strana, visto che ogni racconto porta dentro una qualche forma di messaggio, che lo si voglia o meno.
Il «frammento anonimo della storia» (intesa come Storia) messo in campo, non può più essere tale nel momento in cui viene estratto dal suo fluire complessivo; non è più tale dal momento in cui uno scrittore di fama mondiale lo rende visibile ai suoi lettori.
Non è più anonima né priva di metafora la figura di un padre che ogni mattina prega i suoi antenati davanti al butsudan. Non lo è nemmeno la partecipazione del genitore alla Seconda guerra Sino-giapponese e, forse, all’eccidio di Nanchino. Non lo è il suo essere discreto compositore di haiku, così scettico verso le abilità di narratore del figlio. Non lo è nulla di quanto lo scrittore giapponese ci propone.
Quanto narra, usando le poche pennellate di una scrittura asciugatissima, ha la forza della Storia e la composta perfezione dell’ideogramma riportato su carta.
Come per ogni volume dedicato ai singoli racconti di Murakami, anche Abbandonare un gatto si avvale delle tavole di un illustratore.
In questo caso sono a firma Emiliano Ponzi, il cui stile “igortiano” compare su varie testate in tutto il mondo, qui vestendo perfettamente il breve racconto con le tonalità del verde e alcune fra le gradazioni meno accese dell’arancio.
Sono tavole “fotografiche”, capaci di restituire l’atmosfera metafisica del Giappone e il sapore relativamente sbiadito dei ricordi, ma senza l’accesa morsa del rimpianto.
Cosa che Murakami tende di suo a stemperare in queste pagine, tenendola come una eco di fondo, posizionandola sempre dietro l’atto quasi cronachistico degli eventi collegati alla figura del padre.
In chiusura, da sottolineare l’impeccabilità della traduzione, opera di Antonietta Pastore. Una sicurezza nella sicurezza.
Sergio Rotino
Recensione al libro Abbandonare un gatto di Murakami Haruki, ill. Emiliano Ponzi, trad. Antonietta Pastore, Einaudi 2020, pagg. 76, € 15