Parlare di Memorial device non è cosa semplice.
Il romanzo di David Keenan, giornalista e scrittore, pubblicato in Italia dalla giovane editrice bolognese Double Nickels sul finire del 2020, è una ricognizione totalmente “memoriale” all’interno della scena musicale underground scozzese. Ma non di quella principale, bensì di quella riferita a Airdrie e dintorni, quindi veramente periferica (leggasi: periferia della periferia), e veramente sotterranea (leggasi: praticamente sconosciuta). Questo è Memorial device (pagg. 311, € 18,00) a prima vista.
Basta però una occhiata più profonda, sostenuta da una ricerca in Rete, per rendersi conto di come questo strumento della memoria, questo apparecchio commemorativo o come si voglia tradurre “memorial device” nella nostra lingua, è in tutto e per tutto finzionale.
Nessuna delle band, in primis quella che regala il proprio nome al romanzo, nessuno dei protagonisti presenti nelle pagine del romanzo, ha mai calcato le oscure scene della provincia scozzese né dato alle stampe un vinile che sia uno o fatto un gig, una performance.
Keenan utilizza la sua conoscenza di giornalista musicale della scena post punk degli anni Ottanta per raccontare una parabola dello spreco, esistenziale e artistico. Qualcosa che si ricollega all’estetica punk, ma contaminata da un mal di vivere contemporaneo stretto parente dell’estetica postmodernista, probabilmente.
Un romanzo corale, costituito dalle dichiarazioni/confessioni/constatazioni che gli esponenti (fittizi) ancora in vita di quella scena rilasciano a Ross Raymond, voce narrante (fittizia) che motiva la frammentarietà del racconto a seguire.
Fra le mani di Keenan, ognuna di esse diventa un tassello nella creazione di un piccolo quanto robusto altare all’estetica (etica?) dello spreco di quelle che sono le potenzialità artistiche dei protagonisti e, parallelamente, un innalzamento a opera d’arte del non averlo minimamente, questo tipo di potenzialità.
Diventa anche, e qui la nostalgia appare in filigrana, il racconto di un periodo in cui “fare qualcosa” nel campo delle arti era presente ovunque in potenza, e tutti avevano diritto di azzardare un passo creativo.
Lo spreco e l’azzardo sono forse i due temi che Memorial device mette in campo con più convinzione mentre racconta, dal punto di vista della narrazione finzionale, un periodo che ancora oggi butta germogli.
A legare insieme questi due estremi, una lingua complessa anzi, per niente facile rispetto alle apparenze.
Keenan macina il parlato dei suoi protagonisti, lo ibrida, rimanda a un empireo letterario dove il flusso del pensiero incrocia la parlata bassa, l’involuzione dei concetti, gli “a parte”. Una prosa libera, forse, di certo efficace, pronta a obbligare il lettore a stare sulla pagina. A leggere Memorial device ci si trova dentro non a un libro che prende la musica a pretesto, come poteva essere La banda dei brocchi di Jonathan Coe, ma a un racconto che la tiene come stella polare di un ragionamento più ampio sull’arte e sulla società quando quest’ultima iniziava a ballare sull’orlo del precipizio prossimo venturo. Quello in cui, ancora poco consapevoli, ci troviamo oggi.
Abbiamo parlato di Memorial device con Matteo Camporesi e Lorenzo Mari, i due traduttori dell’edizione italiana.
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Come ci si trova a tradurre a quattro mani un testo non propriamente facile come Memorial device?
Matteo Camporesi (MC) È stato interessante, stimolante e complicato. Quello di Keenan è un testo molto denso di riferimenti, con alcune frasi non immediate da interpretare e diversi registri linguistici da rendere in italiano.
Personalmente, credo che quando si lavora su un testo del genere sia importante prendere delle decisioni ragionate. Confrontarci sulle questioni più complesse è stato molto utile perché ci ha consentito di sopperire l’uno alla mancanza di soluzioni creative (o anche di comprensione immediata) dell’altro.
La presenza di molti narratori diversi nello stesso testo ha anche contribuito a semplificare questo tipo di lavoro.
Cioè?
MC Diciamo che mentre quando si lavora su di un testo in cui è presente un singolo narratore diventa importante ricreare una voce “univoca”, in questo caso la pluralità e la varietà sono un valore aggiunto.
D’accordo, ma perché ci si mette in due a tradurre Memorial device? Tempo non sufficiente, bisogno di scambiarsi pareri e informazioni o semplice casualità?
MC La scelta di lavorare in due sul romanzo di David Keenan viene innanzitutto dalle modalità che hanno portato all’uscita italiana di Memorial device: si tratta della prima proposta editoriale che abbiamo fatto insieme, io e Lorenzo Mari. Rappresenta quindi l’inizio di una collaborazione che ci piacerebbe portare avanti anche al di là dei testi di questo autore scozzese e di questa casa editrice.
Da un paio di anni abbiamo iniziato a fare “scouting” editoriale in maniera piuttosto spontanea: troviamo autori che ci piacciono, ne parliamo, li leggiamo e valutiamo a chi proporli. Abbiamo messo assieme un po’ di contatti fra piccole case editrici e cerchiamo di trovare la corrispondenza giusta tra libro ed editore.
Lorenzo (Mari) mi ha proposto il nome di Keenan perché aveva letto This is Memorial Device, io gli ho proposto Double Nickels perché è una neonata casa editrice bolognese creata da alcuni amici e intende pubblicare autori che abbiano a che fare in un modo o nell’altro con la musica.
Quando Double Nickels ha acquisito i diritti per la traduzione del romanzo e l’ha affidato a noi, abbiamo capito che aveva senso lavorare assieme sul testo, anche perché ormai lo conoscevamo bene entrambi. Questa situazione si prestava anche all’idea di sperimentare un po’: vedere come si lavora a quattro mani, confrontarsi il più possibile prima di iniziare il lavoro e cercare di dargli sin da subito una impostazione corretta per noi.
Mi interessa quanto dite sul lavoro di scouting, fa intendere una figura di traduttore proattivo non solo verso il testo, ma anche verso le case editrici.
Lorenzo Mari (LM) Sì, certo. Al di fuori del nostro caso, ci sembra che questa sia ormai una prassi piuttosto consolidata: per molte case editrici, una parte più o meno consistente dello scouting è demandato ai singoli traduttori. Del resto, è un fenomeno che si spiega anche con una certa facilità, se consideriamo che le piccole case editrici si basano spesso sul lavoro di poche persone. Viene quasi naturale rivolgersi a figure esterne che conoscono un certo mercato o una certa nicchia per interesse personale. Bisogna poi tener conto anche della “saturazione” di certe lingue, in traduzione italiana: fare scouting è molto utile tanto per le lingue minoritarie, ma anche per quelle di larga diffusione, come inglese, spagnolo o francese, che vedono ampi settori delle proprie letterature regolarmente trascurati, intendo in traduzione italiana.
Tipo?
LM Penso alle letterature africane in lingua inglese e francese, alla letteratura del sud-est asiatico in lingua inglese, a buona parte delle letterature della penisola iberica, ad ampie regioni della letteratura latinoamericana.
Che però mi pare siano già presenti nell’editoria italiana…
LM Esistono prestigiose, e preziose, collane editoriali che se ne occupano, ma non coprono, ovviamente, l’intero panorama di una letteratura… Ultimo non ultimo, lo scouting, quando va a buon fine, permette ai traduttori di lavorare su testi che conoscono bene e dei quali sono, in prima persona, lettori appassionati: non bisogna disdegnare di unire l’utile al dilettevole, quando si può!
Tornando al libro. Visto lo stile di Keenan per Memorial device – non una passeggiata, qual è stato il vostro approccio con la lingua messa in campo da questo autore? Come avete lavorato per rendere il tutto nel nostro italiano?
LM Il risvolto di copertina del libro successivo di Keenan, For the Good Times, pubblicato in Gran Bretagna da Faber & Faber nel 2019, definisce l’autore come uno dei più “impavidi sperimentatori in lingua inglese che ci siano in circolazione”. Al di là del roboante risvolto di copertina, ci sembra che lo stile di Keenan anche in Memorial Device sia il risultato di una costante ibridazione di stili e generi. Noi abbiamo cercato di riprodurre questa stratificazione anche in lingua italiana, procedendo sempre con i piedi di piombo e con molto timore.
Anche la presenza di molti narratori diversi, come accennavamo prima, ci ha aiutato, ma ci ha anche posto una sfida nel cercare di identificare e tradurre gli stilemi caratteristici di ciascuna voce narrante. Ci sono stati alcuni passaggi particolarmente impegnativi, che ancora adesso ricordiamo con una punta di inquietudine…
In alcuni casi, ci siamo confrontati direttamente con l’autore, anche per essere sicuri di aver interpretato bene qualche passaggio che poteva risultare oscuro (talvolta, intenzionalmente oscuro). Quando c’è la possibilità, pensiamo che sia sempre bene parlare con l’autore perché capire le intenzioni dietro a una scelta (il perché quel determinato personaggio parla in quel modo; cosa c’è dietro a un gesto ambiguo; da dove viene una certa immagine ecc.) aiuta a rispettare tali scelte stilistiche in fase traduttiva. In ogni caso, credo che, per Memorial device, ci sia venuta in soccorso in primo luogo la nostra formazione musicale (per me, di ascoltatore dilettante; Matteo, anche da musicista), molto utile per un romanzo così intessuto di riferimenti ai generi e, soprattutto, alle controculture musicali degli anni Settanta e Ottanta.
In fondo, la traduzione non è un continuo gioco tra la musica delle varie lingue e il loro contenuto semantico? Per noi, possiamo dire, quella musica è stata una colonna sonora post-punk. E questo è stato inquietante, sì, ma anche piuttosto divertente.
Quanto ci avete messo fra le varie stesure e le varie revisioni?
MC Dal momento in cui abbiamo iniziato la traduzione a quello di consegna della nostra versione a Double Nickels, sono trascorsi circa dieci mesi. Dopo una prima stesura (che ci ha impegnato per circa cinque mesi) ci sono state varie sessioni di revisione e commenti, per risolvere le questioni più ostiche e arrivare a una versione che soddisfacesse entrambi. Durante questi mesi abbiamo contattato più volte David per essere certi di avere interpretato nel modo giusto i passaggi più complicati, e anche per condividere con lui il nostro approccio ad alcuni brani, nei quali era necessario fare scelte piuttosto rilevanti nell’economia del testo.
Avendo lavorato in due sullo stesso testo, come vi siete divisi i compiti? Chi si è occupato di cosa?
MC Prima di iniziare a tradurre abbiamo cercato di trovare una linea comune sugli aspetti principali del libro: stile, lingua, approccio alla struttura del testo e così via. Dopo una prima traduzione, abbiamo invertito i ruoli per la revisione: in questo, in realtà, sempre la presenza di narratori diversi ci ha semplificato un po’ la vita. Dopo aver rivisto ognuno il lavoro dell’altro, ci siamo confrontati su tutto quello che ci creava dubbi o incertezze. A traduzione consegnata, un’ultima revisione è stata fatta da Chiara, di Double Nickels, che ha seguito da vicino il lavoro su questa primissima uscita della casa editrice. Fra l’altro, è lei che si è occupata di redigere l’indice analitico di tutti i nomi presenti nel libro, ossia l’appendice D, cosa molto apprezzata dall’autore stesso.
Chi conosce Keenan come un giornalista musicale, leggendo il suo Memorial device può trovarsi spiazzato. Il romanzo non è “musicale” in senso stretto. Non pare nemmeno autobiografico. O meglio, forse è musicale, perché dice di raccontare “a ritroso” una scena musicale; forse è autobiografico, perché la scena post-punk l’ha vissuta un po’ di taglio, anagrafica alla mano. Comunque è certamente altro, forse uno spaccato sociale e temporale di un periodo visto come “mitico”?
LM Certo, c’è anche questo. Possiamo dire però che Memorial device è una miscela di musica (più come cultura giovanile che non come generi o composizioni musicali in senso stretto), autobiografia e mito.
Hai giustamente messo in campo quest’ultimo elemento – la ricostruzione mitizzante – che ci sembra molto utile, nella scrittura di Keenan, proprio allo scopo di evitare quelle derive nostalgiche che si infiltrano spesso nei libri in cui si parla di musica o di scene musicali andate poi a disintegrarsi. In altre parole, la nostalgia crea una memoria idealizzata e inscalfibile; la narrazione mitica può essere l’apoteosi di quella stessa idealizzazione, ma contiene in sé anche la possibilità del crollo del mito.
È anche per questo motivo che, nella miscela di musica, autobiografia e mito che caratterizza questo libro, nessuno degli elementi ha, in fin dei conti, la meglio. Penso che questo sia uno degli aspetti più convincenti del libro: Memorial Device è sia il nome della band immaginaria protagonista del libro, sia quello “strumento della memoria” che finisce per fondersi con la narrazione stessa. La narrazione di questa memoria, al tempo stesso collettiva e individuale, omogenea e frammentata, può creare un gioco di specchi potenzialmente infinito.
Comunque “fa un po’ paura” pensare che la musica prodotta dalla scena post-punk sia stata tanto pervasiva da risultare ancora “viva”, oggi. È pazzesco pensare che non sia stata scavalcata in importanza da nulla. Forse unicamente dal rap, forse. Secondo voi è così? E perché? Per Keenan è intuibile la ragione, ma per le generazioni successive?
LM Per quanto mi riguarda, se il post-punk è ancora “vivo” lo è come molte altre scene musicali, dall’hardcore punk allo stoner, passando per l’electro-pop, se vuoi… Anche il rap ha già avuto il suo momento di massima diffusione, venendo superato dall’hip hop e poi dalla trap. Forse ci sono alcune stagioni che si possono considerare completamente chiuse, mentre quelle che si dichiarano “post-”, come il post-punk appunto (ma anche il post-rock e il post-hardcore), riescono ancora a garantirsi una certa forma residuale di resistenza, creando spazi di riapertura verso il futuro.
Questo, però, non succede sempre, o almeno non è successo con i vari “post-” che ci sono o ci sono stati nelle altre arti – penso, per esempio, alla differenza tra il postmodernismo letterario (in genere, politicamente depotenziato) e quello cinematografico (che mi sembra ancora piuttosto florido).
Per le controculture musicali credo che conti molto la presenza, più o meno residuale, di una comunità di riferimento. Un dato che tra non molto tempo sarà radicalmente diverso, a quanto pare, visti i profondi cambiamenti nei processi di produzione e consumo dell’industria musicale. Da Spotify alla trap, per semplificare molto, si va verso una frammentazione quasi atomizzante ed estremamente individualizzante… Ma anche davanti a questo orizzonte futuro assai problematico, il libro di Keenan può avere la capacità di dire qualcosa perché, come si diceva nelle risposte precedenti, il dispositivo memoriale e quello mitico restano comunque presenti.
MC Appartengo alla generazione successiva a quella di Keenan, quindi il post-punk non l’ho vissuto in prima persona, ma credo di riconoscere una serie di elementi comuni a tutte le “scene” musicali che si sono succedute negli anni, anche da noi. Credo che Keenan lo riassuma molto bene nell’introduzione del libro, mettendo in bocca a Ross Raymond queste parole: «L’ho fatto perché, per un attimo, anche quando tutto sembrava impossibile, tutti facevamo di tutto: leggere, ascoltare, scrivere, creare, appendere poster, prendere appunti, svenire, vomitare, provare, provare, provare in stanze scure e senza finestre alle due del pomeriggio, come se il futuro fosse proprio lì davanti a noi e volessimo farci trovare pronti».
Per come la vedo io, gli elementi fondamentali sono sempre gli stessi: gioventù, senso di comunità, aggregazione, condivisione e voglia di sperimentare senza paura di fallire. Forse il post-punk è rimasto più vivo di altri generi perché ha avuto una presa che andava al di là della semplice musica. Questo è ancora una volta ben inquadrato da Keenan, che fa parlare musicisti, artisti, ma soprattutto amici e persone che semplicemente frequentavano i concerti e condividevano la vita di tutti i giorni con chi poi sul palco ci saliva, ma che per il resto del tempo era uno di loro. Lo stesso vale per l’hip-hop, l’hardcore, il punk e altre sottoculture che nascono da una esigenza espressiva di fondo e vanno al di là del singolo momento in cui una band si ritrova sul palco a suonare.
Personalmente non sono preoccupato da quello che verrà in futuro, sotto questo punto di vista: credo che ogni generazione troverà il modo di costruirsi la propria scena, di fare le proprie esperienze e di fallire (oppure no) a modo suo.
In Memorial device la scena musicale è totalmente inventata, per quanto possa sapere. Keenan preferisce non citare band realmente esistite ma creare un intero universo, fittizio quanto autosufficiente. Sembra tutto vero, eppure non lo è. Una necessità di tenere a bada la realtà per evitare commemorazioni, emotività ecc.? O una revisione di una scena, quella scozzese, poco prolifica e inventiva per l’autore?
LM Sì, mi sembra che ci sia un’intenzione abbastanza esplicita nell’evitare commemorazioni più o meno nostalgiche, per concentrarsi invece sul lavoro della memoria, che è cosa piuttosto diversa.
Non so dirti quanto sia importante, in questo senso, il giudizio di Keenan nelle vesti di critico musicale sulla scena post-punk scozzese, da lui ricostruita più che altro nelle vesti di romanziere. Di certo, negli anni Ottanta, la Scozia ha prodotto fenomeni come i Cocteau Twins e i Simple Minds, cioè un pop più o meno influenzato dal post-punk, sicuramente lontano da quello che si racconta nelle pagine del romanzo…
Forse è più interessante osservare la specificità dell’ambientazione: non soltanto in Scozia, ma, più precisamente, nella zona di “Airdrie e limitrofi”. Non siamo né a Glasgow né a Edimburgo, ma in un ambiente provinciale e periferico, molto più periferico di quello che poteva essere la stessa Scozia rispetto a Manchester o ad altri luoghi sacri della scena musicale post-punk.
A tutti gli effetti, Memorial device è anche il racconto di una “periferia della periferia”, che si può intendere in vari modi, non soltanto in senso musicale.
Altra cosa. Più che un romanzo ambientato in una scena musicale, Keenan propone un romanzo in cui si racconta l’epica di un periodo e di una generazione. Una generazione oltretutto che pare slegata da quelle precedenti. Il fatto che non sia sbocciata in tutta la sua potenza di scena, che le sue artisticità siano rimaste underground nel senso pieno del termine, viene preso da Keenan come un pregio. Però è anche vero che un personaggio, Paprika Jones, dice a Ross Raymond: «Devi capire che quando si parla di scena locale è come parlare di una scena internazionale in miniatura». Ma credo che l’autore attraverso questa affermazione intenda “generazione” non “scena”. E qui, forse, sto delirando…
MC A mio modo di vedere (ma ovviamente bisognerebbe chiedere all’autore quali fossero le sue intenzioni), l’unica epica possibile in un romanzo come Memorial device è quella che comprende il fallimento e lo spreco (o l’assenza) di talento. La “scena”, termine che ha assunto un’accezione piuttosto modaiola, viene vista da Keenan in questo romanzo come un insieme di personaggi realmente fuori dagli schemi. Come dice ancora Paprika Jones: «La cosa bella di una scena locale come quella di Airdrie era che tutti erano così strani in modo originale che buona parte di loro non poteva contribuire ad alcun preconcetto sulla possibilità. Era impossibile essere possibili».
Di certo, per molte persone cresciute nella provincia scozzese fra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta essere originali non era una posa quanto una necessità, una reazione a una società totalmente disgregata e a una assenza così completa di prospettive future da risultare quasi emozionante. Per cui, sì, in un certo senso credo che Memorial device descriva una generazione oltre che una scena musicale. Nello specifico, una generazione alla periferia dell’impero nel momento in cui tutto è crollato, mentre all’orizzonte si stagliano i mostri del neoliberalismo e dell’individualismo sfrenato che caratterizzeranno il futuro prossimo. Forse sto delirando pure io?
Intervista a cura di Sergio Rotino