Un amico mi segnala l’esistenza di un autore argentino, nato a Montevideo e residente a Torino, che ha realizzato un libro d’artista su L’Aleph, il racconto di Jorge Luis Borges al quale sono molto legata. Prendo un appuntamento e vado a trovarlo.
Arrivo a Torino in Corso Giulio Cesare ed Ernesto Morales – classe ’74, slanciato, capelli e barba scuri, un po’ lunghi, in elegante disordine – mi riceve sulla porta del suo studio, al secondo piano.
Lo studio è ampio e luminoso, diviso in tre ambienti. Seguo Morales in un salone espositivo e conviviale con delle finestre che danno sulla strada, un salotto con dei divani che immagino costellato da amici e artisti e conversazioni, una libreria e un angolo cucina dove mette sul fuoco una moka. Sul muro dietro il divano trova spazio l’immagine di un grande bosco, alla parete opposta vi sono diverse nuvole, mentre sotto l’ultima finestra, accanto a un tappeto da yoga arrotolato, un tavolino raccoglie oggetti di diverse culture e delle carte dei tarocchi. Quella rivolta verso l’alto indica Le Mond.
Ecco a voi Ernesto Morales, con cui abbiamo parlato nella lingua della nostra infanzia. Un cittadino del mondo, una nuvola senza confini che si sposta e cambia, si lascia trasformare e trasforma, impermanente e memorabile.
#
Argentino nato a Montevideo… Com’è la tua storia?
Sono nato a Montevideo, in Uruguay. Erano i tempi della dittatura in Sudamerica. Quando è cominciata in Uruguay avevo tre anni, con i miei genitori siamo fuggiti in Argentina, a Buenos Aires, dove sarebbe iniziata poco dopo. Lì sono cresciuto, sentendomi anche argentino, in un contesto familiare dove circolava una nostalgia molto forte per Montevideo.
Due città, Buenos Aires e Montevideo, che non sono poi così lontane.
Le separa soltanto un’ora di traghetto, in più si somigliano, sono molto europee. Con la differenza che Montevideo è più piccola e si sviluppa guardando il mare, mentre Buenos Aires gli dà le spalle. Forse questo spiega alcune cose delle loro culture. Ma era la nostalgia propria dell’esiliato, di chi abbandona la sua terra per forza e non per scelta, che a casa permeava il quotidiano durante la mia infanzia.
Non era una nostalgia negativa, si trattava di un sentimento che parlava dell’amore per la terra d’origine, per le persone care, era un modo di far presente e mantenere viva la cosmovisione di un mondo che era vicino ma al quale era vietato tornare. Una nostalgia che segnalava un orizzonte da raggiungere, un ritornare a un passato che in realtà rappresentava un futuro ideale.
Come vivevi questa doppia appartenenza?
Da sempre ho cercato di capire di dove ero realmente, se appartenevo al luogo di nascita o a quello di crescita. In questo senso la lettura di alcuni testi, letterari e filosofici, è stata per me di grande aiuto per comprendere alcuni aspetti legati alla mia storia. Leggevo molto e, crescendo, ho studiato autori degli anni Settanta, tra cui Benedetti, Onetti, Galeano, Cortázar e Borges. Nell’adolescenza mi piantarono dentro il seme di domande fondamentali riguardo il senso di appartenenza. Questo negli anni successivi è stato il tema centrale della mia ricerca artistica.
L’identità, un grande tema argentino.
Sì, credo sia il grande problema mai risolto e chissà se lo sarà. Ho fatto molta ricerca intorno al tema dell’identità. La prima volta che sono venuto in Italia avevo realizzato un’opera – utilizzando il linguaggio della pittura ma anche quello della videoarte. Aveva a che fare con l’esilio, con la migrazione italiana in Argentina, sul come questo processo abbia formato gran parte della cultura di quelle zone del Sud America.
E cosa pensi dopo la tua ricerca?
Non sono arrivato a nessuna conclusione definitiva, ma penso che sia un po’ limitato cercare di identificarsi con una specifica identità. Credo sia un concetto che tende a fossilizzare le cose, a dare loro una struttura rigida e non mutevole, perciò non credo che l’identità sia un concetto valido per analizzare la cultura, oggi, né una forma che il singolo debba cercare per trovare un senso di appartenenza a una cultura. Credo sia più valida una strada che consideri una dinamica di incroci, di metamorfosi delle relazioni e degli usi e costumi di un popolo, di cambiamento, di adattamento, di ricerca costante.
C’è stato un momento in cui ricordi di aver scoperto la pittura?
Ricordo che in terza elementare siamo andati in gita scolastica a visitare il Museo di Belle Arti “Quinquela Martín”, che si trova nella zona portuale di Buenos Aires. Davanti a un quadro di questo autore, sono rimasto folgorato. Era un quadro rosso molto grande, di inizi del Novecento, in stile impressionista. Quando sono tornato a casa, dopo la gita, ho detto subito a mia madre che volevo essere un artista come Quinquela Martin e i miei genitori hanno assecondato i miei desideri, iscrivendomi a una scuola di pittura che ho frequentato fino alla fine delle superiori per poi cominciare a studiare all’Accademia di Belle Arti.
Cosa facevi in Argentina prima di trasferirti in Italia?
Ero già un artista. Avevo il mio studio, facevo mostre e frequentavo il vivace ambiente artistico di Buenos Aires. Ero anche Direttore dell’Academia de Bellas Artes, curatore in un museo e insegnavo all’Università.
Poi, nel 2006, mi invitano a presentare l’opera che avevo appena finito di realizzare sulla immigrazione attraverso una serie di mostre e conferenze in diverse istituzioni e musei europei. Quindi sono partito per l’Europa.
Quanto durava questa esposizione?
Il percorso espositivo durava un anno. Dopo la Spagna e la Francia, l’ultima tappa era in Italia, a Roma. Una volta arrivato, comincio subito a lavorare con le mie opere. Le cose vanno bene, mi propongono alcune collaborazioni con gallerie, musei, curatori. Inoltre sono ben accolto dalla scena culturale romana, che trovo stimolante e dinamica: vi incontro tanti artisti talentosi e disponibili. Inizio a sentire un particolare fuoco creativo dentro di me, percepisco che dovevo assecondarlo. Vivo con entusiasmo quel periodo, con una forte necessità di dipingere, di dedicarmi solo all’arte e, nello specifico, alla pittura.
Da lì a poco dovevi tornare in Argentina…
Esatto. Una settimana prima di tornare guardo il biglietto aereo e dico: no, io resto in Italia. Allora ho mandato delle lettere via fax, rinunciando ai diversi incarichi e impegni ai quali ero legato in Argentina, ai quali tenevo perché erano, e sono tutt’ora, parte di una mia visiona integrale dell’essere artista. Ma la forza di dedicarmi piena ed esclusivamente alla pittura, qui, di vivere fino in fondo gli stimoli che ricevevo, di accompagnare un percorso di cambiamento e di crescita con la mia opera, sono stati elementi determinanti nella mia scelta di rimanere in Italia.
Ci sono dei soggetti caratteristici nella tua opera.
Lavoro fondamentalmente con la rappresentazione del paesaggio e dei suoi lenti cambiamenti. Ci sono, da un paio di decenni, tre grandi gruppi che accompagnano la mia ricerca: le vedute di paesaggi urbani, i cieli e i boschi.
I primi mi interessano in quanto luoghi naturali che sono stati modificati intenzionalmente dall’uomo; sono una metafora che mi serve per indagare sulla memoria, sui luoghi vissuti e su quelli immaginari, sulle tracce che lasciamo nel nostro viaggio e su ciò che un luogo lascia dentro di noi. Poi i cieli, siano nuvole o costellazioni, mi consentono di approfondire concetti come l’impermanenza, la metamorfosi, il carattere mutevole di ogni cosa, dalla nostra mente al mondo materiale. Per ultimo, i boschi. Rappresentano il nostro mondo interiore, il mistero dell’irrazionale, dell’inconscio, un cercare oltre la luce rappresentata una luce che nasconde, ma che al tempo stesso svela: quasi come si fosse in un tempo sospeso.
Come nasce una tua opera?
C’è un lungo processo di studio nei campi filosofico e letterario che accompagna la nascita di ogni mia opera. Quando sorge un tema, quando mi si presenta, da lì parte un lungo processo di ricerca, nel quale incrocio teorie e tento di conoscere e approfondire il più possibile tutto quello che lo riguarda e attraversa. Poi sviluppo il tema nella pittura, nella ricerca sul linguaggio che sia più adatto all’idea che voglio portare avanti, dando inizio a delle serie che possono durare anche vent’anni e che hanno lenti mutamenti, dove ogni opera è sempre un passo in più nell’approfondire l’oggetto che in quel momento sto indagando.
Cos’è il linguaggio nella pittura?
Ha a che vedere con aspetti sia tecnici sia concettuali, che sono interconnessi, e riguarda dei codici propri del fare pittura: la modalità tecnica scelta, il modo di utilizzarla, l’elezione del formato, del colore, gli aspetti curatoriali e di allestimento. Poi tutto ciò, secondo me, deve avere un senso anche con il concetto che si vuole sviluppare. A me interessa che la pittura stessa, il modo di utilizzarla, dica già qualcosa, che possa argomentare anche senza l’ausilio di elementi esterni.
Nelle mie opere c’è una parte che realizzo con gran precisione nell’uso delle pennellate e una parte che lascia spazio allo scorrere naturale del colore sulla tela. Lascio gocciolare la pittura, la faccio muovere in autonomia. Non sono processi casuali, mi interessa mettere in evidenza che si tratta di un dipinto, che tutto ciò che avviene sulla tela è un processo manuale, elaborato, sempre in trasformazione, che è una costruzione. Cerco un modo di dipingere che possa contemporaneamente lasciare spazio all’ordine e al caos, all’imperfezione nella ricerca della perfezione.
Si può dire che c’è del simbolismo nella tua opera?
A me interessa un certo tipo di immagine che non si svela completamente al primo sguardo, dove gli elementi raffigurati stano lì per significare tante cose e molto diverse tra di loro, a volte anche opposte. Lascio spazio al mondo onirico, all’immaginario personale, allo sguardo soggettivo dell’altro che entra in dialogo con l’opera. Perciò posso dire che non vi è una forma di neo simbolismo – come disse una volta un critico cercando di definire il mio lavoro – in riferimento al modo di affrontare alcuni concetti e idee. Forse non tanto come collegamento con il simbolismo in quanto corrente storica, ma come modo di cercare di comprendere il mondo e l’esistenza attraverso l’arte.
Hai pubblicato i libri d’artista Arbolecer con la casa editrice argentina Valk, Trentatré haiku con Edizioni Lindau, dove scegli e fai tuoi con la pittura trentatré haiku di Basho, e più recentemente il libro d’artista L’Aleph. Visioni parallele per la casa editrice napoletana Barometz. Come nasce questa avventura borgesiana?
Il racconto di Borges, ha segnato la mia vita fin dalla prima lettura quando ero ancora adolescente, accompagnandomi poi in ogni viaggio, orientandomi su ogni mio interrogativo e creandone dei nuovi.
Trovo molto stimolante per il pensiero il simbolismo racchiuso nel testo, dove si parla di una storia dell’uomo e di tutti gli universi possibili, che si manifesta in modo simultaneo nella forma di una sfera galleggiante e luminosa. Trovo in questo testo profonde analogie con alcuni concetti che a me interessano particolarmente e che hanno radici nelle filosofie antiche, presocratiche e neoplatoniche, ma anche in alcune filosofie dell’estremo oriente, come il Taoismo, il Buddismo, il Vedanta.
Quel racconto racchiude la mia ricerca artistica da sempre. Nelle foreste, nei boschi, nella luce che sorge dietro gli alberi o che emanano le nuvole che dipingo c’è sempre l’Aleph, il quale ricorda l’inizio di ogni cosa. Infatti è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, di quello fenicio, è l’alfa della cultura greca. Per me rappresenta anche l’Uno primordiale che comprende tutto e di cui parlava Plotino. È stato quindi naturale chiedermi, a un certo punto del mio percorso, in che modo poterlo rappresentare nella sua complessità. Questo libro è la sua realizzazione.
Lavoro a questo progetto da tre anni, da quando ci siamo conosciuti con la casa editrice Barometz, la quale, una volta immaginato insieme tutto il volume, mi ha concesso la libertà necessaria per la realizzazione delle tavole e del contenuto complessivo del libro. È stata una collaborazione bella e arricchente.
C’è anche il testo del racconto?
Insieme alla casa editrice abbiamo deciso di pubblicare solo il frammento sul quale ho concentrato il mio lavoro, in modo da aprire nel lettore ancora di più le porte del suo immaginario, visto che la parte di testo racconta del protagonista nel momento in cui trova l’Aleph per iniziare da lì a elencare tutto quello che vede. Questo crea un mondo di immagini e simboli senza fine.
Cosa significa per te questo libro?
È il frutto di un lavoro molto sentito, con il quale ho voluto rendere omaggio a colui che ha segnato la mia vita, quindi il mio cammino nell’arte, e che ispira costantemente la mia ricerca. È una edizione limitata e numerata che contiene trentatré opere. In ogni pagina del libro c’è una foglia d’oro incollata a mano e ci sono anche dei bozzetti che abbiamo deciso di mantenere, così da rappresentare la cosa caotica, non lineare. Perché come ne L’Aleph, tutto convive e coesiste, l’imperfezione e la ricerca della perfezione, l’armonia e il caos, in un paradosso infinito.
Intervista a cura di Mercedes Viola