Ci sono romanzi che lasciano un vago sapore amaro in bocca. Romanzi nei quali il livello di empatia è alto e, una volta girata l’ultima pagina, la sensazione percepita è quella che si riscontra nella frase finale del libro appena concluso. Questo è il romanzo di Jo Nesbø. L’autore scandinavo, già alla ribalta grazie ai suoi gialli appassionati, non smentisce qui, con “Il Fratello” edito da Einaudi nel 2020, il motivo di tanta passione. Un certo tipo di critica vi potrà leggere un veicolo dell’empatia racchiuso tra un linguaggio semplice e lineare, da Best seller, si direbbe, usando una coppia di termini foresti che inorridisce. Ebbene, questi fattori esistono; certamente un linguaggio accattivante, non privo di esplicite nefandezze e di termini scurrili, che provoca, diventa “pop” e commerciale, ma si dovrebbe ritenere che per mettere in essere alcuni tasselli per la riuscita felice di un’opera letteraria sia necessario scavare più a fondo.
Ciò che risulta tra le oltre seicento pagine de Il fratello è uno spaccato di vita di paese, un paese di montagna che, non fosse per i caratteri scandinavi delle insegne topografiche e dei nomi dei suoi abitanti carichi della durezza della lingua norvegese, potrebbe essere un qualsiasi paesino di una qualsiasi regione del mondo. I pettegolezzi, la vita privata posta alla mercé degli occhi giudicanti dei compaesani familiari e al contempo nemici rappresentano il contesto nel quale si svolgono i fatti narrati. In molti tra i lettori potrebbero aver sentito sulla propria pelle questa sensazione, aver vissuto questa esperienza. Ecco trovato il secondo elemento che consegna il romanzo alla voracità delle masse: l’esperienza comune.
Si scava ancora a fondo, tra le righe della trama del romanzo ed ecco che la pala del lettore cozza contro un elemento che gli è noto (o perlomeno a chi abbia frequentato scuole dell’obbligo in cui lo studio della letteratura italiana incontrasse De Roberto tra i principali esponenti del Verismo). Carl, il fratello appunto, veste i panni di Consalvo Uzeda dei Viceré di De Roberto: è un uomo disposto a tutto, che non trova soddisfazione nel passato, dal quale ha ricevuto solo porte in faccia (che sia un testamento o una violenza fisica poco conta) e che per trovare un suo riscatto personale sfrutta i mezzi della comunicazione accattivante. I sermoni di Carl dal pulpito della sala civica del suo paesino di montagna non sono dissimili dalle dissertazioni e dai cambi di casacca di chi deve ritrovarsi repubblicano essendo partito da una vita di vantaggi monarchici.
Ma il sottobosco dei significati di questo romanzo qui non s’interrompe. Impregnata delle pagine di Nietzsche, ogni dissertazione in prima persona del protagonista ripercorre la traiettoria circolare dell’eterno ritorno. Qui il serpente si sazia della sua coda per oltre seicento pagine di passione e morte. Esiste un solo momento, un insignificante momento, in cui il lettore crede che l’autore abbia individuato un altro serpente da far mangiare al primo, che questo secondo rettile sibilante venga meno e al primo non resti che tornare alle sue spire e riprendere a girare in tondo. Questo girotondo non finisce mai. Pare che se le scadenze editoriali non avessero imposto un termine di consegna a Jo Nesbø, egli avrebbe potuto proseguire il suo romanzo in eterno, perché è così che gira la vita se si decide di sposare questo tipo di filosofia. Insomma, l’autore scandinavo ci dimostra la concreta messa in pratica del principio dell’eterno ritorno e chiede al lettore se sia davvero sicuro di non essere in mezzo anche lui a un cerchio di siffatte spire.
Inganni, intrighi e colpi di scena sono il terzo elemento pop del romanzo. Ma, a un’occhiata più attenta, quello che può essere riscontrato come banalità della messa in scena di un delitto, già visto in tutte le serie TV da Don Matteo e CSI, ossia le bugie del colpevole per svincolarsi dalle ricerche della verità, altro non sia ne Il fratello il perpetuare di altre bugie e messe in scena per ottenere privilegi personali. A cavallo tra l’incomunicabilità che cerca di trasmettere la letteratura americana degli anni ’20 e dei tentativi di scalata sociale dell’abate Vella de Il consiglio d’Egitto di Sciascia, Nesbø pare voler attingere a piene mani dalla storia umana e del giallo europeo per comunicare un significato più profondo di quanto il pop possa trasmettere; pur imbellettandolo con meritate Corone norvegesi. Insomma, un interessante viaggio dalla Scandinavia alla Sicilia, ma queste supposizioni andrebbero verificate e studiate con più cautela, «come si dice».
Lorenzo Bissolotti
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Jo Nesbø. Il fratello, Einaudi, 22€, 639 pp.