È recente l’uscita del romanzo “Transito” di Aixa de la Cruz per Giulio Perrone Editore, tradotto da Matteo Lefèvre, e già fa parlare di sé.
Dalle prime pagine, infatti, abbiamo la certezza di confrontarci con una lettura che non passa inosservata e predilige i lettori forti, quelli pronti a rischiare di mettersi in discussione scoprendo l’io più profondo.
L’autrice, prossima ai trenta anni, stende un resoconto di quella che è stata la sua vita. Un susseguirsi di spostamenti da un luogo a un altro, da un’esperienza a un’altra. Tutto è movimento, tutto corre. Le uniche pause sono date dalle ubriacature, dalle droghe assunte e dalle attese vane di scatti emotivi. C’è un aborto, non mancano gli incidenti, quelli gravi, dove la morte non si ferma davanti a giovani vite o lascia cicatrici durature sulla pelle e incontriamo la familiarità con il dolore fisico che, per Aixa, richiede un’attenzione assoluta e si combatte solo aggiungendone altro.
Incidenti cercati come fonte di stimolo. Dolore che diventa terapia, assuefazione. In fondo “i corpi sono fatti per rompersi”, bisogna scriverne solo se restano illesi.
Procedendo nella lettura scopriamo come si allarghi la visione della scrittrice e la sua attenzione si rivolga al mondo esterno. Ecco allora le accuse alla Sanità, agli orrori della prigionia sotto tortura, alle guerre, al bullismo, alla femminilizzazione della politica, a una madre vista come “guarda del corpo” e a un padre biologico “falso fuggitivo”. Nel continuo peregrinare di Aixa è presente il Messico, terra di contrasti e di violenze, con i suoi omicidi, la paura del terremoto trasformata in innocua consuetudine, e c’è spazio anche per il marito Rafa, “un fannullone e un maschilista” di cui si libererà attraverso l’alibi del tradimento. Veniamo a conoscenza del disprezzo provato verso il suo essere donna.
«“Donna” era un partito che non rappresentava i miei valori.»
Lo riduce a “costruzione culturale”. Avverte il problema nel relazionarsi con le altre e riesce a superarlo solo attraverso il dominio durante l’amplesso. La maternità è bella solo quando non le appartiene e dovrà attraversare buona parte dei suoi anni prima di interrompere l’odio coltivato nei confronti della madre, non più vista come origine dei suoi sensi di colpa.
Una vita segnata da cicatrici, visibili e invisibili, prima di giungere alla trasformazione.
“Visto il fallimento ottenuto fin qui, forse comincia a essere ora di mettere all’asta le nostre viscere.”
Preferisce indossare i panni della colpevole e non della vittima nella sua partecipazione all’hashtag # Me Too, lavora a maglia per distanziarsi da se stessa, prende cognizione del suo passaggio dall’io al noi e della violenza come origine del patriarcato che da sempre minaccia le donne.
Ogni tema è trattato con una scrittura diretta, che non fa sconti e centra il bersaglio con precisione offrendo a chi legge molti spunti per riflettere.
“…mi piacerebbe che la letteratura fosse sempre utile.”
Il suo vero compito e il suo unico merito.
Un libro che non necessita di un elevato numero di pagine per raggiungere lo scopo: quello di prendere coscienza delle nostre cicatrici traendone insegnamento.
Come ultima considerazione, volendo mettere in gioco il Caso, non posso non soffermarmi sul cognome dell’autrice: De la Cruz (Della Croce) e, con un azzardo, accostarlo alle Stazioni della Via Crucis nel loro significato di cammino penitenziale e di redenzione, ritrovando punti di contatto con la sua vita.
Carla Magnani