Il guscio del secondo romanzo di Athos Zontini, La bella indifferenza, calcifica almeno apparentemente gli ineluttabili fantasmi della letteratura kafkiana.
Non per quanto riguarda lo stile, sia chiaro, ma per il tono del racconto.
Le mura portanti che l’autore napoletano ha voluto dare alla sua casa narrativa, sono invece quelle che indirizzano verso l’opera di Buzzati e di una parte del fantastico, inteso qui sia come genere letterario sia come marca esistenziale.
Dico Buzzati per il richiamo immediato che il nome del personaggio principale de La bella indifferenza suscita e, forse, anche per il lavoro e la quotidianità che Zontini gli affibbia.
Ettore Corbo, protagonista di questa opera seconda dell’autore napoletano, è infatti un quarantenne commercialista, attivo in uno studio creato dalla sua famiglia, ma di cui ora è socio “di minoranza”, così sintetizzeremmo.
Aggiungendo inoltre quanto il personaggio dichiari una (leggera?) crisi sistemica sul lavoro e nel rapporto con la moglie Marta.
Quanto avviene in queste due situazioni si fonda su di “un accumulo di tessuto cicatriziale”.
Entrambe si portano dietro una “svogliatezza” dovuta forse alla routine e, per quanto riguarda il rapporto con la moglie, una distonia causata dal non riuscire ad avere un figlio.
Anche il pretesto narrativo da cui si parte rimanda a Buzzati o, se non all’autore milanese (di certo erroneamente meno figo da citare, rispetto a Saramago o a Gogol), a certa letteratura fantastica, come appunto dicevamo prima. All’interno di questo tipo di lavori la “cadenza” metafisica è una costante, così come lo è ne La bella indifferenza.
Poi, certo, bisogna sottolineare come nel romanzo pesino i dati accessori, appunto quelli collegati con la vita sentimentale e lavorativa del personaggio. Che definiamo “accessori” unicamente per il loro essere utili a farne notare il suo progressivo allontanamento, non disperante, da quella che potremmo definire come “morale comune”.
Una fra le tante morali comuni è quella che coinvolge il gruppo di conoscenti e di affetti riferito a Corbo.
Detto in breve. Corbo, una mattina (quante cose accadono la mattina…), dopo aver staccato gli occhi dallo smartphone si rende conto di non percepire più i volti delle persone, compreso il suo. Di punto in bianco.
Sembrerebbe una forma acuita di prosopagnosia, cioè la visione sfocata dei volti (si ringraziano i motori di ricerca…).
Il nostro personaggio si trova così a fronteggiare dei puri ovali color pelle, senza nessuno spigolo o curva a caratterizzarli. Nemmeno il suo, di volto, presenta più i tratti somatici che lo caratterizzano.
Il mondo di Corbo diventa così un grande insieme di manichini, praticamente indistinguibili gli uni dagli altri se non per la voce e i vestiti.
Corbo scopre nel tempo che gli unici mezzi per riappropriarsi del mondo come lo conosceva, sono la fotocamera e la rabbia: un freddo elemento tecnologico e uno dei sentimenti umani più “caldi”.
Da subito, il lettore viene catapultato in quella che potrebbe essere definita come una immane tragedia, un morselliano Dissipatio HG 2.0. Invece quello che Zontini crea sulla pagina attraverso le azioni del suo personaggio, è essenzialmente un cambiamento di prospettiva.
Il non vedere più le espressioni del volto di chi incontra, permette a Corbo di perdere almeno in parte certe inibizioni legate all’habitus sociale. Cosa che gli consente di prendere decisioni che altrimenti mai avrebbe portato alla superficie.
C’è una sua evoluzione quindi, che lo sposta da un sentire qualcosa di simile al senso di colpa verso gli altri all’indifferenza. Se all’inizio evita di raccontare quanto gli accade, avvertendo la sincerità del chiedere aiuto come una sorta di “cattiveria gratuita”, alla fine il non vedere più i volti diventa per lui meno di un fastidio.
Curioso come la discesa che Zontini ci fa intuire all’inizio del romanzo, prima di prendere tutt’altra direzione, ne richiami un’altra.
Precisamente quella che colpisce la figura di Giuseppe Corte nel racconto buzzatiano Sette piani. Ma è un leggero sentore, non altro. Che però si somma a quello orchestrato ne L’occhio del purgatorio da Jacques Spitz, romanzo dove il personaggio principale acquista una capacità di vedere oltre la facciata del quotidiano.
Ne La bella indifferenza il quotidiano (alias la società) cerca in tutti i modi di minimizzare, se non rendere invisibili, gli atteggiamenti fuori norma di Corbo, oppure prova a derubricarli a “fastidio”.
Alla fine gli dà del matto, ma senza usare il termine. Lo sposta, così facendo, da uno a un altro status. Un modo per non far sfuggire nessuno al suo controllo e parallelamente autoassolversi (“Non sono io l’anomalia”).
Ma la società appare a Corbo per quello che è, un mondo di manichini, di ultracorpi che tendono a uniformare ogni aspetto dell’esistenza, a inglobare, disposti finanche a sopportare chi non resta in linea con le leggi che la regolano purché non tenti di uscire fuori dal seminato.
Gli uomini senza volto di Zontini, sono gli uomini vuoti dell’omonima poesia di Elliot. Ancora di più, sono i manichini che Giorgio De Chirico inserisce ne le Muse inquietanti e in altri suoi lavori. Però trasposti nel nostro contemporaneo e trasformati nei manichini plastici e corrivi proposti nelle opere pittoriche di Mark Kostabi.
Ogni essere umano si può riconoscere nel volto senza tratti che l’artista americano reitera nei suoi lavori «non perché anonimo, ma perché potenzialmente di tutti», per dirla con Vittorio Sgarbi.
Zontini porta Corbo a riconoscere per quanto larvatamente che questa forma di omogenizzazione, questa omologazione di tutti a un solo verbo, annienta il pensiero, cancella l’individuo, non permettendogli di avere una visione autonoma e creativa dell’esistenza.
In un qualche modo, probabilmente proprio attraverso la forma di ribellione passiva che attua, lo porta a diventare un outsider e a trovare, nella diversità di sguardo sul reale, una forma di salvezza e di coscienza di sé.
Sergio Rotino
Recensione del libro La bella indifferenza di Athos Zontini, Bompiani 2021, pagg. 254, € 17,00