Lo zio Ettore tornava dal fiume, dalla pioggia e dal fango in fondo alle notti più nere. Tornava e fischiava, io correvo fuori e lui posava la canna di bambù, posava il secchio, lo scoperchiava e lasciava che scappassero da tutte le parti, e intanto mi urlava Dài, veloce, acchiappa le anguille.
Io mi tuffavo su una, sull’altra, su tutte le anguille strappate all’acqua melmosa del fiume in piena, che strisciavano scure nell’erba e si perdevano nelle rughe del terreno.
Le prendevo, le stringevo forte, e già non c’erano più. Sparite, scivolate tra le dita o forse passate attraverso la carne come i fantasmi attraverso i muri, spettri duri di pelle e muscoli, un po’ ricordi un po’ sogni.
Perché l’anguilla è così, l’anguilla ci sfugge. Quando proviamo a prenderla con le mani, quando proviamo a comprenderla coi nostri ragionamenti, rigidi come il secchio dello zio. Cerchiamo di infilarcela dentro, ma lei si dimena e si contorce e scappa di qua e di là, mezzo pesce e mezzo serpente, inafferrabile nell’erba come sott’acqua.
Dài, muoviti, che tornano tutte a casa, urlava lo zio, e rideva, e mentre cercavo di fermarle io ci pensavo, a quelle loro case. Che sono tante ma ogni anguilla ha la sua, unica ed eterna. Lungo le rive più stanche dei fiumi, in fondo a fossi e paludi tra la melma e i legni marci, dove l’acqua è così torbida che gli occhi non servono e si caccia col naso.
Ma poi, dopo una vita piantate lì sotto, l’istinto le chiama e le anguille partono. Per un viaggio lunghissimo fino agli abissi dell’oceano. Le anguille dei fiumi si voltano e scendono alla foce, quelle rinchiuse nei laghi e negli stagni lì per lì non sanno che fare, ma il richiamo è troppo forte, fissano la riva e stringono la loro mascella prepotente, si aggrappano al poggio e semplicemente escono dall’acqua, abbandonando il mondo che gli era toccato in sorte. Gli occhi si allargano, le pinne diventano zampe, le anguille si mettono in marcia verso il mare, in mezzo all’umido delle notti senza luna che tengono al buio il loro mistero.
Perché tutto è mistero in questo viaggio, migliaia di chilometri per il Mediterraneo e oltre le Colonne d’Ercole fino alle profondità del Mar dei Sargassi, dove tutte le anguille finalmente si riuniscono.
Oppure no, oppure questa cosa non è mica vera e la diciamo solo per sentirci un po’ meno persi. Perché in realtà non sappiamo niente, da dove passano, dove si incontrano per davvero, come fanno poi le anguille appena nate a tornare ognuna a casa sua, precisa nel posto da dove è partita la madre.
Non lo sapevo io e nemmeno lo zio, che lui invece sapeva sempre tutto. È per questo che avevo paura, mentre rincorrevo le anguille e loro continuavano a scappare, sempre più nere in mezzo alla terra. Non le vedevo più, e solo mi sembrava di sentirle, che vorticavano velocissime intorno a me, una colonna nera di anguille che giravano tutte insieme e si strusciavano fra loro come in fondo al Mar dei Sargassi, e mi guardavano con quegli occhi appuntiti e si avvicinavano e ridevano di me.
Come rideva lo zio, con la sua bocca storta dalle sigarette e la faccia mangiata dal salmastro, a guardarmi così piccolo, così disperato mentre tentavo di prendere le anguille, di stringerle forte e tenere per sempre con me quella vita imprevedibile e aggrovigliata, che sempre si agita e ci scappa, sempre ci scivola via dalle mani.