La casa non ruba, nasconde. Lo troverai quando meno te l’aspetti. Dopo che lo trovi non lo perdi più. Cosa stavi facendo quando l’hai perso? Cerca di ricordarti l’ultima volta che l’hai visto. Fai un fioretto. Dici la preghiera di sant’Antonio. Apri un paio di forbici sul tavolo. Fai un nodo a una corda. La casa non ruba, nasconde. Ce l’hai un pendolo? Se l’hai perso lo dovevi perdere. Sicuro che era dentro casa? L’ha preso il folletto della casa. L’avranno nascosto i gatti. Non conosci la filastrocca delle cose perse? Non è che te l’ha rubato qualcuno? La casa non ruba, nasconde. Recita il Sequeri tredici volte di seguito. Fai benedire la casa. Calma, niente panico. La casa non ruba, nasconde.
A vent’anni ho perso uno degli orecchini che mio padre aveva regalato a mia madre e poi ho perso anche l’altro. È la prima cosa che ricordo di aver perso, la prima candida e atroce amputazione. Il giorno prima, io e i miei oggetti eravamo tutti interi e tutti insieme. Sì, certo, nell’infanzia avevo smarrito bamboline, pentoline, vestitini, ma non importa, nell’infanzia perdiamo l’infanzia, il resto non conta; perdiamo persone, padri, nonni, innocenze, tabù, e la chiamiamo crescita. A vent’anni, scegliendo di indossare per la prima volta gli orecchini blu ho pensato che qualcuno, lassù in cielo o dove diavolo potesse essere, mi avrebbe protetto, quegli orecchini erano una delle poche tracce dell’amore da cui ero nata, quale dio sarebbe stato così crudele da strapparmeli dai lobi?
L’anno scorso, ventitré anni dopo, ho perso la mia copia della prima edizione di Casa di foglie di Mark Danielewski, poco dopo che era arrivata la nuova, in una nuova traduzione e per un nuovo editore. Ricordo solo di averle messe accanto, poi ho spostato la prima, poi buio. Mi racconto una bugia, dico che l’ho regalata e non ricordo a chi e così trovo pace, soprattutto adesso che è uscito un nuovo libro di Danielewski e non riesco neppure a toccarlo. Se hai una copia di quell’edizione e senti di voler riequilibrare l’energia cosmica, allora scrivimi, mentre non dispero di vedere spuntare quel vecchio dorso giallo Mondadori da sotto la poltrona o dietro una fila di libri. Mi è successo con Carla Lonzi, la seconda volta ho comprato Sputiamo su Hegel perché non lo trovavo dentro casa e adesso ho due dorsi viola uno accanto all’altro. Così, adesso, scambio un dorso viola femminista con uno giallo sperimentale e scrivo racconti come annunci di compravendita.
Quando ho perso l’ultima cosa che ho perso, la settimana scorsa, ho pensato che avrei voluto cominciare un quaderno con l’elenco delle cose perdute, un quaderno con la copertina nera lucida come quello di Valeria nel Quaderno proibito di Alba de Céspedes, il quaderno che le rigira la vita da dentro mentre lei si oppone al cambiamento, mentre lei ha paura di tutte le cose che scrive. Quel quaderno, ho pensato, io non l’avrei perso. Però, come Valeria, mi sarei detta spesso: adesso lo brucio. Un quaderno per la vertigine della lista, comprato come negli anni Cinquanta una mamma, moglie e impiegata della mia età comprava di nascosto a tutti, anche a sé stessa, un amico muto cui raccontare chi fosse davvero.
Per sapere chi sono, gli avrei raccontato tutto quello che ho perso.
Ho perso la collana regalata dalle mie nonne quando mi sono battezzata, poi, un giorno, ho incontrato a pranzo un’amica e gliene ho vista al collo una uguale. Quella notte ho sognato le mie nonne, l’indomani mi sono svegliata e ho trovato capovolta la fotografia con me piccolina che festeggio il mio secondo compleanno con davanti una torta e accanto loro due. Poche ore dopo, ho trovato la collana.
Ho perso nell’armadio un paio di pantaloni blu e una gonna nera corta.
Ho perso una mascherina con la faccia di Frida Kahlo, è finita vicino la macchina di una persona che mi piaceva. Dev’essere andata così: uscendo da casa mia se l’è portata dietro in una tasca, è scivolata mentre cercava le chiavi, è rimasta sotto la pioggia finché non è stata ora di ritrovarla.
Ho perso una gonna nera lunga, molto più bella di quella nera corta, molto più vecchia, molto più mia. Una volta l’avevo prestata alla mia migliore amica e me l’aveva resa slabbrata con la forma dei suoi fianchi, così diversi dai miei.
Ho perso un’altra mascherina, prima di quella di Frida, questa aveva un disegno buffo. L’ho ritrovata nel cesto dei panni sporchi. Nulla di strano, tranne che quella mascherina non era mia.
Ho perso le chiavi della mia macchina, quando ne avevo una.
Ho perso le chiavi di casa mia e quelle di una casa in cui non ho abitato, ma il proprietario teneva molto che le avessi, diceva che saperle con me lo faceva sentire al sicuro.
Ho perso un piccolo polipo in vetro colorato e una spazzola per vestiti dal dorso color argento. Ho perso cose della cui assenza mi sono accorta quando le ho ritrovate, scoprendo ogni volta di cosa potevo fare a meno. È incredibile quante siano.
Da settembre ho un braccialetto alla caviglia, uno di quelli che si fanno sempre più sottili finché non si slacciano e poi si perdono quando si avvera il desiderio. Prima del braccialetto, che è sempre lì, ho perso il desiderio: non lo ricordo più.
Ho perso un mazzo di carte disegnato da un’illustratrice gotica. So che è da qualche parte in casa ma non riuscivo ad aspettare e l’ho ricomprato prima che la mente mi s’incantasse. Regalo anche questo a chi mi darà il primo Casa di foglie. Lo troverò, come ho trovato Lonzi: trovare le cose è il più sincero atto di fede che mi è rimasto.
Mentre scrivevo questo racconto, ho perso un tagliaunghie. È successo dalla sera alla mattina. Lo ricomprerò anche se non lo uso e non regalerò nessuno dei due a nessuno, sarà l’ultima cosa che scriverò, poi chiuderò il quaderno nero per sempre e non perderò mai più nulla.
Nadia Terranova