Entrando nella cucina di Flannery O’Connor, oltre il tavolo e a la madia a scrigno, si arriva ai gradini che conducono al piccolo cortile. È lì, in un quadrato di cemento e ghiaia ed erba, che lei scriveva il suo diario rivolto a Dio. Poesie, confessioni, malintesi, in onore di un’esistenza che l’aveva fatta ammalare di lupus e che la teneva in stampelle e poi nella quasi totale immobilità.
Flannery O’Connor, di Savannah, Georgia. Nessuna paura delle tenebre, lei che avrebbe continuato a rifondare la letteratura americana, se solo avesse avuto qualche scampolo di esistenza in più. Che scrittrice cardinale: basta leggere Il cielo è dei violenti, romanzo che chiude i suoi trentanove anni e una manciata di opere concepite a onor della vita. Steinbeck, Melville, Anderson, pochi altri scrittori statunitensi come lei sono riusciti a non avere paura di raccontare cosa siamo.
Lo pubblicò nel 1960, quando era al massimo della sensibilità letteraria e al minimo della sensibilità fisica. Non camminava già più, dopo un passato di celebrità nazionalpopolare per aver insegnato a un pollo a marciare all’indietro. Flannery, che era figlia della Bibbia e che a un certo punto familiarizzò così tanto con nostro Signore da dargli del tu, quando bisticciava con la madre, quando gli amori non arrivavano, quando la solitudine era corrosiva e si rifugiava in Tommaso d’Aquino. “Caro Dio, potrò continuare così per molto? Lo credi davvero?”.
Pregare, agognare altri orizzonti, tornare sempre al simbolo che edificava come punto di partenza e di arrivo della propria poetica: il battesimo. Non il sacramento, non solo il saramento, quanto l’iniziazione al proprio destino. In questo O’Connor sale sul carretto con i figli di Mentre Morivo di William Faulkner, o sulla barca a vela del Vecchio e il mare di Hemingway, l’umanità che diventa sé stessa nei cambi di pelle, dolorosi e furibondi, scorticati dalla memoria.
Il cielo dei violenti è un verso di Matteo tradotto dalla Bibbia – The Violent Bear It Away – che inneggia alla collera contro Dio e in nome di Dio: una controversia che infuoca i millenni e che in questo romanzo dà forma alla vicenda di Francis, quattordicenne votato a un’educazione religiosa sotto l’ala di uno zio falso predicatore. Ma qualcosa accade, sono le prime pagine, e la legge dei credenti diventa la legge dell’uomo. Essere umani invece di essere santi, in O’Connor il passaggio è brutale.
Mai raccontare troppo del Cielo è dei violenti perché si rischierebbe di dissiparne l’incanto. Solo qualcosa va svelato, partendo dai corpi che O’Connor mette in scena. Il sudore, la pelle consunta, le gambe forti anche se livide, questa carne ferita dal peccato come emblema di insubordinazione verso i comandamenti dell’anima. C’è una scena all’inizio del romanzo in cui Francis ascolta le volontà dello zio rispetto alla sepoltura che il vecchio vorrebbe. Lo zio “aveva lavorato alla cassa per molto tempo, e quando ebbe completato l’opera aveva inciso sul coperchio MASON TARWATER, CON DIO, e senza spostarla dalla veranda posteriore ci si era infilato dentro e si era trattenuto per un po’, completamente invisibile tranne il ventre che sporgeva dal bordo come una pagnotta troppo lievitata”. Flannery O’Connor è in quel ventre sporgente che spunta dalla cassa da morto, un tratto stonato e vitalissimo, dove l’imperfezione del singolo diventa la salvezza di tutti.
È qui che il nostro Francis inizia a farsi grande, capendo che esiste un regno dei beati e un regno dei bifolchi, e che proprio quest’ultimo contiene la misericordia meglio dell’altro. Siamo nel testamento di Flannery O’Connor, dove l’uomo mangia l’uomo ma anche dove dio mangia dio. Non c’è mai teologia spiccia, o pesantezza narrativa, c’è sempre l’avventura. La scrittrice di Savannah sovverte le regole, a partire dal pennuto a cui insegnò a fare dietrofront quando era bambina, come a dire: ecco a voi la liturgia che rimescola le regole del gioco.
Avventura, devozione agli uomini di buona e cattiva volontà. E l’America. La giovane Flannery viaggiò molto, da New York all’Europa, e più accresceva il senso di pellegrinaggio più si accentrava in madrepatria, la Georgia, e in particolare Savannah e la fattoria di famiglia, a Milledgeville. Il perimetro rurale è il recinto dei suoi personaggi che razzolano tra la grazia eterna e il potere dell’oggi, sbattendo contro il grottesco.
È una terra storta, quella di O’Connor, ma celestiale, una costellazione dove si distinguono le oscurità e i bagliori di un Paese in cui le colpe sono l’Orsa Maggiore da seguire. Ed è questo, il senso di colpa, a diventare il fiume che battezza gli spiriti del Cielo è dei violenti, lasciandoli nella controversia di loro stessi. Una lotta intestina che Flannery O’Connor imparò a dominare, «Mi piacerebbe essere santa in un modo intelligente”, accettando che essere al servizio di Dio significasse persino sfamare i demoni. Sono i delitti e castighi a renderla una scrittrice di potenza lacerante, o meglio i delitti e i castighi auto-inferti. Nel romanzo, tradotto egregiamente da Gaja Cenciarelli, la voce interiore di Francis si dibatte perché i propri istinti stridono con la Bibbia, portandolo al bivio: cedere alla libertà significa bruciare all’inferno? Non cedere alla libertà significa bruciare in questo mondo? Diteci qual è, dunque, la via di scampo.
La risposta è così semplice: il futuro. Nel Cielo è dei violenti la giovinezza racchiude l’imprevisto e
l’imprevisto garantisce l’avvenire degli uomini. Così quando Flannery seppe di essere ammalata si rimboccò le maniche e visse con l’audacia dei precursori. Si spinse oltre, e questo libro è la traccia di una luce nuova. Nella ribellione sorda del ragazzino, nella compassione sopravvissuta di certi adulti, in ogni filigrana della terra. E poi, certo, in un dio ballerino che non ha un buon carattere. Oltre ogni consolazione, di nuovo, c’è la possibilità di lenire la morte con la letteratura, “Si scrive e si deve sempre scrivere di ciò che si conosce, ma per farlo è necessaria una storia di portata mitica, una storia che appartenga a tutti”. Credevamo che il mondo fosse quello ai nostri occhi? Sbagliavamo della grossa.
Il cielo appartiene ai violenti, e agli incompiuti. Flannery O’Connor ha scritto un purgatorio che ci racchiude