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La Veduta di Delft

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La Veduta di Delft è un olio su tela di Jan Vermeer. Per Proust era il quadro “più bello del mondo”. Davanti al quadro di Vermeer, Bergotte, lo scrittore, un personaggio di Alla ricerca del tempo perduto, si sente male (morirà poco dopo, “la gravità delle vertigini non gli sfuggiva” scrive Proust, anzi traduce Giiovanni Raboni) e Bergotte parla della sua scrittura: “… così che avrei dovuto scrivere, pensava. I miei ultimi libri sono troppo secchi, avrei dovuto stendere più strati di colore, rendere la mia frase preziosa in sé, come quel piccolo lembo di muro giallo”. Bergotte crolla su un divano, muore ripetendo “quel piccolo lembo di muro giallo” e lo mette sul piatto della bilancia, sull’altro piatto mette la sua vita, Bergotte sentiva, scrive Proust, di aver dato la vita per quello. Come avverto io, inutilmente, ora, adesso davanti al piatto della bilancia che è questo monitor dove tu leggi, ovviamente leggendo “solo” te stesso, te stessa. “Quello che si può dire – commenta Proust/Raboni – è che tutto nella nostra vita avviene come se vi fossimo entrati con un fardello di obblighi contratti in una vita anteriore”. E poi Proust si alza nel cielo dell’intelligenza parlando dell’autore del quadro: “ricominciare venti volte qualcosa che susciterà un’ammirazione così poco importante per il suo corpo divorato dai vermi, come il lembo di muro giallo dipinto con tanta sapienza e raffinatezza da un artista per sempre ignoto, identificato appena sotto il nome di Vermeer”.

Che cosa mi spinge ora a condividere questo ininterrotto fallire della mia personale bilancia, dove la mia vita è sempre impari a “quel piccolo lembo di muro giallo”? Qual è il mandato che obbliga, il fardello della mia vita anteriore? Non lo so, metterò questa immagine su una copertina di un libro che pubblicherò, un libro che amerò, certo. E non sarà altro che un ornamento come un altro.

Per dirla tutta, quei momenti della mia sovrana sofferenza andranno perduti nel nulla, “come lacrime nella pioggia”.

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