Visionario e incantato, un capitano coraggioso della prosa e dello stortytelling. Marco Steiner può essere descritto soltanto così una volta completata la lettura de La musica del vento. Il romanzo è una storia di rara passione e avventura, nel solco dell’immaginario di Hugo Pratt che lo stesso autore conobbe. L’Argentina è la terra da abbracciare e da cui fuggire, la Terra del Fuoco e della pampa, la terra in cui il protagonista Morgan Jones intravede Maria Leibowitz, una schiava da bordello in una grigia Buenos Saires. Sono due personaggi feriti, straziati da esistenze massacranti e un passato da dimenticare, i demoni li accompagnano in ogni dove. Ma non è un romanzo d’amore, o di resilienza. La Musica del vento di Steiner è l’avventura, l’epica italiana che finalmente torna in libreria con la sua selvaggia bellezza, una storia di dolori e silenzi narranti; perché Morgan dovrà prendere un veliero “fantasma” e trovare un tesoro maledetto fino a quando il vento non gli avrà divorato l’anima. Tra Salgari, Pratt e la durezza di Cormarc McCarthy il romanzo di Marco Steiner è una nuova epopea, la storia della nostalgia e del coraggio.
Cristiano Saccoccia
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In fondo alla Terra del Fuoco c’è una striscia di sassi, distese di arbusti piegati dal vento, desolazione e scogliere scure schiaffeggiate dal mare. Si chiama Penisola Mitre, laggiù ho trovato la porta dell’inferno. Quello è il sud di tutto, ogni cosa finisce là, il mondo reale scompare, la costa è un precipizio affacciato sul regno del nulla, oltre quel punto ci sono solo onde taglienti e la furia dell’oceano. Quelle onde non sono normali, hanno una voce, è un richiamo che scaturisce dalle caverne nascoste in profondità, emerge e si mischia con l’urlo del vento, ti penetra dentro, ti afferra l’anima e ti trascina nel vuoto.
Quello non è un buon mare, è un mare ostile, non vuole sentirsi addosso uomini in cerca di fughe o avventure, e i disgraziati che ci arrivano li inghiotte, li sbatte sul fondo e li restituisce alla terra trasformati in cadaveri di ghiaccio. Io non ho mai amato il mare, il mio mondo è la pampa, la terra rossa senza fine. La pampa non è mai spoglia, non è un deserto, ci ritrovi frammenti di vita, la tua vita. Pezzi che vagano come mulinelli di polvere, t’inseguono, ti ruotano intorno, ti avvolgono, ti cambiano e ti portano con loro, lontano. Puoi fermarti, aspettare e guardare quel nulla per ore, camminare pensando a ciò che vuoi, ma di una cosa puoi stare certo: la pampa ti accompagna, assorbe i ricordi, le fantasie, i mostri, e li lascia liberi di andare. Sembrano miraggi, incubi, invece sono una nuova realtà. E tu cambi, diventi come lei, spazio possibile. Adesso però sono qui e cerco il vuoto. Ho fatto e visto troppe cose che gridano ancora, devo disperdermi nell’aria per scrollarmi di dosso l’orrore. Questa terra è dura, inospitale, vuole starsene in pace, non vuole essere calpestata da chi ha stuprato, violato e ucciso. Io ero uno di loro, uno dei peggiori, le mie mani grondano sangue. Aspetto che la fiamma si spenga, fisso il cielo, il buio, poche luci e le nuvole scompigliate, tutto il resto non conta più niente. Sto morendo sul suolo freddo, guardo in alto e vedo un fiume, l’acqua scorre davanti ai miei occhi, passano pezzi di memoria, brandelli di corpi come barche di carta, musi di animali muti se ne allontanano e continuano a fissarmi, uccelli dalle ali rattrappite scivolano nella corrente fino a quando le nebbie avvolgono ombre e fantasmi. Un velo scende e ricopre tutto. Il mondo sfuma e io resto qui, inchiodato al suolo. Ormai è tardi, ma ho capito, non si afferra il passato. L’acqua scorre e mi trascina, mi sbriciola, pezzo a pezzo. Ora piove. Grosse gocce mi cadono sulla faccia, sono gelate, maligne, indugiano, scivolano dalla fronte, s’incanalano fra rughe e peli, lambiscono le labbra. Chiudo gli occhi e mollo ogni legame, mi dissolvo e mi sembra di volare, foglia secca nella musica del vento. Non c’è confine fra il sogno e la memoria, solo spazio, immenso e vuoto.