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Valentina Mira inedita. Fuoco

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Lavoratori indispensabili, dice.

Lavoratori, dice.

Indispensabili, dice.

Io dico che se eravamo indispensabili quando morivamo in strada, in bilico su due ruote con quel cubo giallo rimpinzato di goma-wakame-alghe-sushi-sashimi-pizza-supplì-cibo-vario-con-un-profumino-da-sturbo, almeno due soldi li davano alle nostre famiglie, no?

No.

Il punto è che di noi rider non gliene frega un cazzo a nessuno. E non gliene frega talmente un cazzo a nessuno che per sapere quanti ne sono morti, di noi, consegnando goma-wakame-alghe-sushi-sashimi-pizza-supplì-cibo-vario-con-un-profumino-da-sturbo, bisogna affidarsi a un unico studio, peraltro del 2019, realizzato da un’associazione di guardie. Suona attendibile, vero? Direi a chi non si fida di fare due ricerche. Noi non abbiamo un sindacato, non abbiamo molto in generale.

E pensare che io li studiavo, i diritti. Mi sono laureato in Legge, prima di dargliela vinta. Fa un bell’effetto conoscere alla perfezione i tuoi diritti mentre te li stanno togliendo. E ora potrei straparlare di lacune giuridiche del diritto internazionale, che è quello che regolamenta queste mega-aziende, e di aporie e di prese per il culo varie, ma a che servirebbe?

Del resto, noi siamo lavoratori indispensabili.

Sarà per questo, perché mi sento importante importantissimo indispensabile, che oggi sono qui con una tanica di benzina in mano. Davanti a una delle loro sedi. Con un cubo giallo, quel cubo giallo. Perché da domani piuttosto do il culo, e giuro che non me ne pento. È più proficuo e non meno illegale di questa merda qui, questa che mi costringe a consegnare, proprio a me che c’ho fame, goma-wakame-alghe-sushi-sashimi-pizza-supplì-cibo-vario-con-un-profumino-da-sturbo nelle case degli altri. Su due ruote. Sotto la pioggia. Con una cazzo di pandemia in circolazione. E, ripeto, una fame da lupi.

Ieri è stato l’ultimo giorno di lavoro. L’app che mi controlla ha liberato ben quattro slot, cioè ha deciso che potevo lavorare per quattro ore. Dalle diciannove alle ventidue. Così io le ho prenotate – bling! – e lo slot si è colorato di verde. Verde speranza? Verde denaro? Non so, non voglio sapere. Ora, è tanto quello che non si sa su noi rider e su come funziona effettivamente il nostro lavoro. Per cui partirò da questo. E cioè dal fatto che capita che tu prenoti uno slot, e ti aspetti che l’app faccia uno dei suoi suoni festosi per dirti che ehi, è il momento di muovere il culo e lavorare, e però per un’ora non succede niente. Così te ne stai sul motorino al freddo, o in bici, o in macchina, o insomma, stai dove stai, con il cellulare in mano e ti domandi: ma perché? Perché io ti ho dato la disponibilità del mio tempo se tu devi prendermi in giro? Capace che passa un’ora intera senza guadagnare un euro. Ieri, ovviamente, è proprio così che mi è andata. Quindi dalle diciannove alle venti ho fissato il volto senz’occhi dell’app, interrogandomi su quanto ci si possa permettere di odiare un datore di lavoro talmente grosso e vigliacco da comandarti tramite un algoritmo. Io odio qualcuno che non so che faccia ha. Ma, lo giuro, lo odio a morte. A sangue. Si dice “lo odio a sangue”? Perché io, quello lì, lo odio a sangue per davvero.

Detto ciò, alle venti e due minuti l’app suona. Allegra come una festa della pignatta dove la pignatta sei chiaramente tu, ti dice che devi andare in quel centro commerciale brutto, quello che l’ha fatto un architetto famoso ma c’ha messo delle lumache colorate giganti e – non scherzo – una di queste una volta è caduta giù e per poco non ammazzava qualcuno. Una lumaca verde. Verde speranza.

Vado al centro commerciale brutto e, facendomi furbo, evito di passare sotto quelle cazzo di lumache. Pioviccica, resto col casco in testa e mi metto in fila. L’unica cosa buona di questo lavoro è che i tuoi colleghi, non potendoti fare le scarpe in alcun modo, sono solidali con te. Faccio un occhiolino a una pischella coi capelli a caschetto, lei sorride. «Bella», dice in romano. Forse in un’altra occasione l’avrebbe presa per un’avance. Ma la presenza di quel cubo giallo nelle mani di entrambi non rende equivocabile il mio occhiolino. Comunque, non chiacchieriamo. Nemmeno io ho voglia di rimorchiare. Sull’app c’è scritto un numero, quel numero sono io, aspetto solo di essere chiamato. Lo chiamano. Mi chiamano. Sono un numero, la cosa non mi offende. Del resto, neanche la persona che sta riempiendo sacchi e sacchetti di hamburger è il mio capo. Qua siamo schiavi che s’interfacciano con altri schiavi. E gli schiavi con gli schiavi devono essere solidali, sennò si muore.

Aspetto una decina di minuti, la pioggia aumenta, rosico. I sacchetti non devono bagnarsi, così li ficco a tutta birra dentro il cubo giallo. Rigorosamente nell’ordine: a sinistra i caldi, a destra i freddi. Vado via, dimentico di salutare la ragazza col caschetto ma in fondo sticazzi. Mica ci formalizziamo, qui.

Comunico all’app che ho finalmente il cubo pieno, l’app mi dice che devo andare a dieci minuti da dove mi trovo. Mi aggancio il casco sotto il mento – prima non mi faceva respirare, tra quello e la mascherina e la pioggia e il futuro che boh, mi stava venendo un attacco di panico niente male – imposto la mappa, vado.

La sera va tutta così. Di consegna in consegna, alienante, mentre guido canto. È come le fusa per i gatti, che certe volte se le fanno da soli, quando sono agitati e vogliono rasserenarsi. Da bambino mi cagavo sotto di sciare, ero freddoloso e non mi piaceva la velocità, così le rare volte che ci andavo cantavo. Stessa cosa, ora. Ho una paura di morire che mi si porta via, ci canto sopra. Mi sembra anche carino, in caso, stirare le zampe cantando. Come uno scherzo, come uno che lavorava per scherzo.

A fine serata – per scherzo, dicevo, perché siamo lavoratori indispensabili – ho collezionato la bellezza di cinque consegne, diciotto euro e quarantatré, venti euro comprese le mance.

Mi sono fracicato. E oggi, in effetti, oggi che sono qui davanti alla loro sede con il loro cubo con altri e altre come me intorno davanti alla loro sede ciascuno con il loro cubo (perché il cubo è loro, non nostro, lo paghiamo sessanta euro che ci trattengono per la cauzione dai primi guadagni, questo cubo di merda fatto di materiali inquinanti di merda), insomma oggi in questo contesto qui io ho freddo.

Fortuna che il freddo non durerà a lungo.

Fortuna che c’è questa tanica di benzina.

Fortuna che c’è questo accendino, compagno di mille canne per placare gli attacchi di panico e che però me li fanno venire, ma che vuoi farci, in una società priva di cura ognuno si cura come può, come sa.

Fortuna che c’è il fuoco.

E quanto gli dona, a questo cubo di merda, il fuoco.

Forse domani sigleranno un contratto in cui diranno che ci pagheranno un euro in più. Ma intanto noi gli abbiamo ricordato, ancora e di nuovo, che dalla nostra c’è e ci sarà sempre il fuoco.

Valentina Mira

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