Nel 1984, la Casa editrice Arcana proponeva per la prima volta in traduzione italiana uno dei reportage di “gonzo journalism” firmati da Hunter Thompson. Si tratta di quel Fear and Loathing in Las Vegas di cui Terry Gilliam ha firmato una trasposizione cinematografica nel 1998 e che è stato per l’occasione riproposto al lettore italiano da Bompiani. Titolo del film in Italia, Paura e delirio a Las Vegas; del libro: Paura e disgusto a Las Vegas. Titolo della prima traduzione Arcana: Paranoia a Las Vegas.
Il titolo dell’edizione Arcana traduceva il doppio termine “fear” e “loathing” con “paranoia”. Non era certo per svista. Non da parte di un editore che ha largamente privilegiato, a partire dalla fine degli anni settanta, una prospettiva panamericana, particolarmente attenta ai fenomeni culturali legati al beat e alle avanguardie (Burroughs, soprattutto), nonché alle forme dominanti della cultura popolare, con specifico riferimento al rock (Dylan, Lou Reed, i Doors, tra gli altri) e al cinema. Si tratta, piuttosto, di una trasposizione illuminante, per cui la paura e il disgusto, nel momento stesso in cui vengono inseriti all’interno di un discorso che vuole darsi come organico e abbracciare un’intera società e cultura dominante, assumono la connotazione della paranoia.
Il termine “paranoia” è definito dal Vocabolario Zingarelli della lingua italiana “Malattia mentale caratterizzata da idee deliranti, di persecuzione, di grandezza e simili, in personalità che, per il resto, sono normali.”
Il popolare Dizionario medico Dompé, invece, opta per “Delirio sistematizzato in un soggetto le cui funzioni psichiche sono per altri versi normali (assenza di allucinazioni e di disturbi mentali a carattere schizofrenico)”.
Dunque: mania di persecuzione, mania di grandezza, delirio sistematizzato. Si tratta, entro una certa misura, di tre dimensioni connaturate non solo e non tanto alla società americana, quanto alla sua autorappresentazione e, perché no, al suo stesso, proverbiale sogno.
Mania di persecuzione e mania di grandezza sono le radici sociali e il sostrato ideologico del grande esperimento puritano. Città sulla collina, circondata da una wilderness connotata come aggressiva e demoniaca, il modello sociale dei padri pellegrini e di tutti i loro derivati successivi si autodefinisce attraverso una vera e propria sindrome da accerchiamento, che di metamorfosi in metamorfosi accompagna l’espansione continentale e colora di sé l’intero mito della frontiera. Mito che, ben lungi dal tradursi in un immaginario spaziale e narrativo contraddistinto dal moto continuo (come pure sarebbe legittimo attendersi e come infatti si è tentato a più riprese di sostenere), si sostanzia in una curiosa iconografia di luoghi circolari o comunque chiusi, e di ossessioni di assedio.
Non è forse vero, a mero titolo di esempio e di curiosità, che il giocattolo e il gadget con il quale il West e il mito cinematografico della frontiera si sono trasmessi all’infanzia di molti di noi è il fortino, con i soldati (o, in mancanza di essi, i cowboys) circondati da una marea di indiani urlanti? Né mancano gli esempi cinematografici, da Il massacro di Fort Apache al modesto ma molto popolare L’avamposto degli uomini perduti. Ma è il mito stesso della frontiera a coagularsi intorno a circostanze storiche e a momenti fondanti nei quali sull’espansione e sulla corsa verso nuovi territori prevale la sindrome difensiva, una vera e propria fisiologia della “disfatta eroica” contro forze preponderanti (da cui una potenziale oscillazione paranoica) e brutalmente estranee. Penso in particolare al Little Big Horn e alla sconfitta di Custer – che, attratto in un’imboscata, fa cerchio e si batte eroicamente con un pugno di uomini contro le tribù Sioux alleate -, o ancora all’assedio di Alamo, ritrovo, nella versione cinematografica di John Wayne, di eroi fondatori della frontiera americana come Davy Crockett e Daniel Boone, uniti contro il supposto strapotere militare messicano. Per una nazione che fin dall’atto della sua fondazione si esercita in una rimozione sistematica del proprio passato, in una cancellazione progressiva di tutto ciò che il tempo implacabilmente trasforma in memoria, non c’è da stupirsi che i miti di Custer e di Fort Alamo subiscano un’operazione di svuotamento proprio di ciò che ne costituisce il presupposto, ossia l’atto di invasione e appropriazione di un territorio già popolato, di modo che l’effetto suggerito dalla codificazione cinematografica è quello di un’inversione secca delle parti in cui il ruolo dell’alieno e dell’invasore è recitato dagli autoctoni, o comunque dai residenti sul terreno di scontro.
Nel caso di La battaglia di Fort Alamo, e di alcune versioni “storiche” dello stesso episodio, l’estraneità e il brutale sadismo dei messicani e del loro generale Santa Ana vengono evidenziati dalla decisione di fiaccare il morale e la resistenza dei coloni texani facendo suonare ininterrottamente, giorno e notte, il canto di morte del Deguello. Particolare ben presente nel film di Wayne (uscito nelle sale americane nel 1960), e già utilizzato l’anno precedente, con esiti e rilievo strutturale ben maggiori, da Howard Hawks in Un dollaro d’onore. In questo film quintessenziale e da molti considerato il massimo punto di maturità raggiunto dal western, la sindrome dell’assedio raggiunge il punto di massima consapevolezza teorica. Nella prigione in cui lo sceriffo Chance (John Wayne), il suo vice – nonché ex sceriffo, ora alcolizzato – Dude (Dean Martin), il giovane pistolero Colorado (Ricky Nelson) e il vecchio aiutante tuttofare e sciancato Stumpy (Walter Brennan) si sono asserragliati in attesa che lo sceriffo federale venga a prelevare il fratello omicida del potente Nathan Bourdette, Hawks rappresenta un modello in miniatura della società della frontiera: tutto al maschile – le donne ne sono escluse e rappresentano la tentazione di un’uscita “normalizzante” verso l’esterno che nel film rischierà di costare a Chance il successo della sua missione – e rappresentativo di tutte le età dell’uomo americano: la giovinezza apparentemente ribelle e disincantata che si arricchisce e si completa in un nuovo rispetto dell’imperativo morale (Colorado); la maturità completa (Chance) e quella sviata, manco a dirlo, da una donna (Dude); la vecchiaia bisbetica ma al tempo stesso romantica e temprata alla fedeltà e al sacrificio di sé (Stumpy). Un microcosmo che dal confronto con ciò che è alieno ed estraneo al suo sistema di valori esce rafforzato e restituito alla sua sanità: Bourdette fa suonare il Deguello, proprio come aveva fatto Santa Ana, nel preciso istante in cui Dude sta per cedere dopo essersi fatto cogliere di sorpresa e neutralizzare da due sgherri di Nathan, ha riconsegnato la sua stella di aiutante sceriffo e si è già versato un bicchiere di whisky. Ed è il suono del Deguello, il canto di morte, a salvarlo: la mano non gli trema più, tanto che può travasare di nuovo il whisky dal bicchiere alla bottiglia. Metafora efficacissima del carattere essenzialmente consolatorio e rassicurante – almeno, dal punto di vista sociale – di una sindrome da assedio nella quale del nemico è garantita non solo la devianza, ma il carattere irredimibilmente alieno.
Altri esempi. I Conestoga: i carri coperti dei pionieri sistemati in cerchio, organizzati, di sosta in sosta, come una sorta di comunità stanziale in continuo spostamento, che celebra i suoi rituali collettivi (primo fra tutti, il ballo, circostanza narrativa ricorrente anche in western militari come Il massacro di Fort Apache) sullo sfondo di una wilderness che, prima della fine o a ripetizione, tenterà di attaccarla. O la diligenza di Ombre rosse, vero e proprio atto di fondazione del western classico: un altro microcosmo mobile, insidiato dall’esterno nella memorabile scena dell’assalto indiano. Non a caso, i registi che, a partire dagli anni sessanta, procedono alla revisione sistematica del western rinunciano prima di tutto proprio alla sindrome da assedio. Nel caso degli ultimi film di Ford, o di quelli di Pollack – e, per avvicinarci ai nostri giorni, del Costner di Balla coi lupi -, di registi, quindi, che sono parte organica della tradizione hollywoodiana o la corteggiano e costeggiano al tempo stesso, la rinuncia è consumabile solo in quanto atto individuale: si pensi alla erranza di Ethan Edwards in Sentieri selvaggi (con il correttivo ulteriore di un nomadismo e di un’espansione nello spazio indiano motivati dal desiderio di vendetta e dalla ricerca della nipotina, vittima di una vera e propria alien abduction), o a quella, ben più consapevole e programmatica, di Jeremiah Johnson in Corvo Rosso, non avrai il mio scalpo. Ci vuole invece il Sam Peckinpah più folle e coraggioso – e più massacrato dai produttori – per svelare la folle ambizione di dominio e l’espansionismo spaziale americano, al di là di ogni mascheramento difensivo: è il caso di Sierra Charriba, forse l’unico western di taglio militare nel quale la monomania del protagonista, il Major Dundee (Charlton Heston), rinunci al comodo riparo offerto dalla mania di persecuzione (e all’invenzione sociale di un’ideologia della paura che a essa sempre si accompagna) e riveli la smania di grandezza che sta alla radice del sogno americano nella sua deriva più folle e proprio per questo più sincera. I nemici dell’homo americanus sono tutti lì, impilati uno sull’altro nel crogiolo offerto dal Messico negli stessi anni della Guerra Civile americana: indiani e messicani, anche qui e stavolta insieme, con in più i dragoni di Massimiliano d’Asburgo, la vecchia Europa, la concreta – anche se pittoresca – minaccia alla dottrina di Monroe sintetizzata nella formula “l’America agli americani”, enunciata nel 1823, prima cristallizzazione del combinato tra mania di persecuzione e mania di grandezza che sta al cuore del sogno americano e della sua deriva paranoica.
Ma da dove parte, in senso più massicciamente storico e concretamente sociale, la deriva paranoica del sogno americano? A partire da quale evento o configurazione di eventi diventa possibile parlare di paranoia in senso stretto? Prima candidata al titolo è e rimane l’esplosione della Guerra Fredda e del fenomeno maccartista. La candidatura ha tuttora le sue ragioni, ma è in corso da tempo un processo di revisione storiografica che fa del maccartismo stesso non tanto e non solo un figlio della teoria dei blocchi contrapposti, quanto di quell’eccesso di governo che avrebbe portato gli Stati Uniti (non bastando l’avventura della Prima guerra mondiale e dell’internazionalismo wilsoniano) ad abbandonare definitivamente il loro isolazionismo e ad accettare, obtorto collo, il ruolo di custodi della democrazia. Nella polemica di McCarthy contro l’amministrazione Truman, presentata, con ampia copertura mediatica, come un covo di comunisti e di traditori degli ideali americani, riecheggia una diffidenza nei confronti delle teste d’uovo che avevano fatto da supporto materiale e intellettuale alle politiche del New Deal e che avevano fornito a Roosevelt le premesse ideologiche per l’intervento in Europa che ricorda molto lo spirito della frontiera.
Il famoso discorso tenuto da Joseph McCarthy il 9 febbraio 1950 a Wheeling, West Virginia, può essere considerato un vero e proprio atto inaugurale dell’atmosfera che avrebbe dominato gli “spaventosi cinquanta”: le parole esatte di McCarthy sono andate perdute, ma numerosi testimoni ricordano che il senatore del Wisconsin avrebbe parlato di una lista di 205 comunisti ancora impiegati presso il Dipartimento di Stato. L’invenzione di una vera e propria “lista di proscrizione”, che dai gangli del governo si sarebbe presto estesa a tutti i settori della società americana, era stata preceduta dal celeberrimo caso di Alger Hiss, accusato di simpatie comuniste risalenti all’epoca del New Deal, mentre al tempo del processo era presidente della fondazione Carnegie Endowment for International Peace, già consigliere di Roosevelt, e in questa veste presente alla Conferenza di Yalta, nonché segretario generale della Conferenza di San Francisco che dette vita alle Nazioni Unite. Condannato dopo un processo lungo e complesso a cinque anni di carcere per il reato di spergiuro, Hiss era proprio una delle “teste d’uovo” che Roosevelt aveva collocato in posti chiave della sua amministrazione, e rappresentava pertanto la chiave di volta necessaria a McCarthy per avvalorare l’idea di una cospirazione antiamericana ai più alti livelli del Dipartimento di Stato.
La diffidenza verso le teste d’uovo era del resto parte di un atteggiamento complessivo di preoccupazione e disorientamento, che aveva certamente avuto i suoi prodromi nella Grande Depressione del 1929 e nel forte statalismo e centralismo della ricetta rooseveltiana (per la quale molti New Dealers non avevano esitato a scomodare l’inviso termine “socialismo”), ma che conosce un’articolazione decisiva in seguito all’ingresso degli USA nel secondo conflitto mondiale e al conseguente abbandono della politica isolazionista. A contatto con la vecchia Europa (anche se nella versione “degradata” propostane dal nazismo), costretti a tuffarsi nel proprio passato dimenticato e rimosso (il tema di Ardenne 1944: un inferno, altro, troppo trascurato film di Pollack), riesce difficile agli americani e alla loro macchina ideologica riproporre i modelli operativi che avevano caratterizzato l’approccio alla frontiera e alla propria dimensione continentale. La sindrome da assedio presuppone un’alterità difficilmente tributabile agli europei; tanto più che la ragione ideologica dell’intervento in guerra muove da una lettura del conflitto e dello sbarco in Europa come “aggressione a fine difensivo”, estensione del conflitto tra democrazia e autoritarismo su scala globale (making the world safe for democracy). L’imbarazzo nel rappresentare l’Homo americanus come invasore necessario e conquistatore di nuovi spazi − seppur da riconsegnare alle popolazioni spossessate e ai governi democratici in esilio − risulta evidente se solo si pensa alla persistenza del modello difensivo offerto dal western. I due grandi film di guerra del 1999, Salvate il soldato Ryan e La sottile linea rossa, collocano i nuovi “coloni della democrazia” in posizione di attacco, e ne registrano tutto il disorientamento, la totale mancanza di punti di riferimento, la difficoltà a concepire la wilderness dell’atollo nel Pacifico o l’antichità del suolo europeo come terreni da annettersi mentalmente, anziché da respingere. E il film di Spielberg, più rispettoso della logica dell’intrattenimento e della tradizione cinematografica, riserva alla carneficina dello sbarco in Normandia e all’immersione nel caos del Vecchio Mondo la prima, devastante mezz’ora del suo film, salvo poi ripiegare su un modello più convenzionale, che ricalca il Ford di Sentieri selvaggi nella ricerca di Ryan per poi approdare al tradizionalissimo finale, in un paese in rovina che va nuovamente difeso, più ancora che sgomberato, da forze nemiche preponderanti e soggettivizzate nella bestiale alterità del soldato tedesco, sorta di demoniaco Rambo pronto a fare strage degli stessi nemici che lo avevano risparmiato.
A questo necessario abbandono del proprio calcolato isolamento e di un senso di identità concepito in opposizione alla wilderness e a nemici che di essa sono la fantasmatica attivazione, si risponde con l’invenzione di un’ideologia della Guerra Fredda che, ci ricorda Marcello Flores, sul piano della politica estera si incentrava sul concetto di ‘interesse vitale nazionale’ e sul fronte interno trovava la propria espressione nel richiamo ai valori e al modello di vita della tradizione, in una parola al ‘punto di vista americano’. E infatti la domanda: ‘Ha tradizionalmente sostenuto il punto di vista americano?’, costituiva quell’easy test che il capo dell’FBI J. Edgar Hoover voleva imporre a tutti i cittadini. ‘Uno degli aspetti più curiosi dell’attuale caccia alla slealtà e alla sovversione è data dal fatto che non abbiamo definizioni né dell’una né dell’altra’, scrisse in quegli anni un intellettuale e storico; aggiungendo inoltre: ‘il maggior pericolo che ci minacci non è il pensiero eretico o il pensiero ortodosso, ma l’assenza di pensiero.’
Sul piano della politica estera, la ridefinizione paranoica del sogno americano si traduce in un estremo corollario della dottrina di Monroe, che tenta di proiettare su nuove versioni della wilderness la stessa sindrome d’assedio, certo non assente, a mero titolo d’esempio, dalla filmografia sulla Guerra del Vietnam, con l’ampio spazio dedicato all’esperienza della prigionia dei missing in action e con la concezione e rappresentazione della giungla come spazio claustrofobico di cui i Charlie, formidabili scavatori di gallerie e capaci di uscire dalle viscere stesse della terra, diventano più che mai l’incarnazione. Se i risultati sono dubbi in termini di credibilità, ciò accade soprattutto perché è progressivamente venuto meno il senso di quella alterità su cui l’identità americana, in un sistema che nel decennio successivo Thomas Pynchon avrebbe ribattezzato come “zeroes and ones”, si costruiva e si consolidava. La differenza tra l’onesto cittadino e il traditore non è più identificabile mediante facili estromissioni, poiché il traditore attinge, almeno dichiaratamente, agli stessi valori americani che secondo i suoi accusatori avrebbe disatteso. Come ci ricorda Robert Coover nel suo prodigioso romanzo The Public Burning, rievocazione del processo per spionaggio ai coniugi Rosenberg, Julius Rosenberg teneva appesa alle pareti della sua cella una copia ingiallita della dichiarazione di indipendenza:
“Ora, vent’anni dopo, Julius Rosenberg era ancora fuori gioco, anzi, lo era sempre di più, mentre io (è Nixon che parla) giocavo a golf con lo Zio Sam. Oh, ci stava ancora provando. Si identificava con i Padri fondatori, con i martiri negri, con quello che amava chiamare “il popolo”. Ma perfino quella copia ingiallita della Dichiarazione di Indipendenza che teneva attaccata alla parete della sua cella, probabilmente per dimostrare la sua eterna fedeltà alla patria, era solo un segno ulteriore della sua alienazione: la Dichiarazione non era mai stata veramente centrale.
Sulla parete del mio ufficio, invece, io tenevo una copia della Preghiera inaugurale del Presidente Eisenhower: “Dacci, ti prego, la forza di distinguere chiaramente ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.”
Se i presunti cospiratori fanno della loro fedeltà all’idea originaria di America una bandiera, le modalità di costruzione, o ricostruzione, di un modello oppositivo si potranno ormai dare solo mediante un delirio sistematico: con i termini della definizione medica della paranoia, che valgono anche come definizione sociale della paranoia americana. Un nemico della nazione che confessi individualmente la sua colpa non basta più, nel momento in cui la sua autodefinizione è così “simile” a quella del carattere nazionale da creare solo imbarazzo e disagio (e non è questo, tra l’altro, il tema del grande film della fantascienza da Guerra Fredda, L’invasione degli ultracorpi?). Subentrano allora meccanismi di rimpianto per i tempi in cui l’altro era veramente altro, e l’unico sforzo per rispedire la paura fuori dalla regione del disagio più autentico e restituirla a una funzione di controllo e definizione dell’identità attraverso l’attenta coltivazione dei suoi ultra−corpi diviene quello della moltiplicazione numerica, dell’invenzione (mai provata, e improbabile più di qualsiasi altra) di una rete di spie. Invenzione la cui arma è la delazione, non la confessione: una delazione disciplinata, sistematizzata, verificata tramite i reagenti dell’americanismo, riprendendo quei compiti di “normalizzazione” che, in occasione della prima caccia alle streghe, erano stati fatti propri dai pastori delle chiese congregazionaliste.
Paragonare il discorso di insediamento di Eisenhower e quello di addio, dopo due mandati presidenziali che coincidono con la fase più acuta e drammatica della Guerra Fredda e con un modello di normalizzazione interna che ben presto abbandona gli eccessi teatrali del maccartismo per lavorare a una ridefinizione dei valori americani, ci consente di allargare lo sguardo fino ad abbracciare una nuova fase della paranoia americana, che trova espressione in larga parte della narrativa e del cinema postmoderni.
Con le parole di Eisenhower: “La congiunzione di un apparato militare immenso e di una potente industria degli armamenti è qualcosa di totalmente nuovo per l’esperienza americana. L’influenza globale − economica, politica, perfino spirituale − è percepita in ogni città, in ogni ufficio statale, in ogni edificio del Governo Federale… Nelle riunioni di Governo dobbiamo guardarci dall’acquisizione, più o meno calcolata, di un’influenza incontrollata da parte del complesso militare−industriale. Esiste e continuerà ad esistere il rischio potenziale di una concentrazione spaventosa di potere nelle mani meno indicate… Non dobbiamo lasciare che il peso di questa combinazione metta a rischio le nostre libertà o i processi democratici. Non dovremmo dare niente per scontato…”, si apre JFK, il film di Oliver Stone che conclude e sintetizza la grande stagione della paranoia postmoderna. Film a tesi, che della paranoia fa un’arma di riscatto, la restituzione di senso a uno degli eventi che più profondamente hanno disorientato e oscurato le capacità percettive degli americani. Affermare che Kennedy è stato ucciso da una cospirazione, di cui sono identificabili i protagonisti (un campionario di reietti, di cui viene marcata ossessivamente la “devianza” sessuale) ma soprattutto il fine ultimo e l’autentico colpevole (Lyndon Johnson e il complesso militare industriale, che non può accettare la volontà di Kennedy di ritirare le sue truppe dal Vietnam) equivale a restituire alla storia e all’identità americane il loro spazio, seppur assediato, e connotare i nemici interni della democrazia come esempi di quella logica “meccanica” e totalitaria che fa di Lee Harvey Oswald il suo strumento inconsapevole ed eterodiretto. Una logica meccanica che nasce dal Dipartimento di Stato rooseveltiano e discende la corrente della storia “fermandosi” temporaneamente in una serie di incarnazioni sempre più inquietanti: dal già citato, e indeterminato, complesso militare−industriale alla CIA, madre di tutti i complotti e obiettivo dichiarato di una serie di film “di impegno civile” che si incuneano tra i due “avvenimenti fondanti” di una nuova età del sospetto: l’assassinio di Kennedy e il Watergate. Ne I tre giorni del Condor, ancora di Pollack, il protagonista Joe Turner (Robert Redford) scopre l’esistenza di una vera e propria CIA all’interno della CIA, ma soprattutto scopre che tra le due c’è contiguità e potenziale sovrapposizione. Tutto il servizio segreto, con i suoi rappresentanti grigi e distaccati, è l’incarnazione di un “meccanicismo” programmato, di una macchina da complotti che assume su di sé molti dei caratteri antiamericani già attribuiti ai sovietici e ai loro infiltrati nel cuore dell’America. Macchina che fallisce contro le capacità di adattamento e il fisiologico, orgoglioso dilettantismo dell’analista lettore di libri e fumetti, carattere americano che, come Turner confessa a Kathy (Faye Dunaway), la donna che ha sequestrato per poter usufruire del suo appartamento e con cui intreccia una relazione sentimentale, non ricorda niente di ieri, mentre oggi piove. L’elogio di Turner trova nell’imprevedibilità, perfino nella casualità delle sue scelte, il suo vero e proprio fulcro, rafforzato, come sempre per contrasto, dal grigiore minaccioso del funzionario della CIA Higgins (Cliff Robertson). Ma come in tutti i suoi film, Pollack respinge i facili trionfalismi: se esalta l’individualismo come virtù americana, ritemprandolo attraverso il paragone con un mondo di “organization men”, non ricompone intorno a tale individualismo il senso di una collettività che sappia accertatamente condividerlo. Alla fine del film, Turner consegnerà un memoriale al New York Times, ma sui titoli di coda continuerà ad aleggiare, minacciosa, l’insinuazione di Higgins: “Sei sicuro che poi lo pubblicano?” Turner rischia veramente di venir condannato a un’erranza perenne, volto nella folla, sempre insidiato dalla profezia del killer (europeo) Joubert (Max von Sidow):
Non vedo un grande avvenire per te a New York. E ti può anche capitare che te ne vai a passeggio, magari è la prima bella giornata di primavera, e una macchina si mette al tuo fianco, e si apre lo sportello, e qualcuno che conosci e di cui forse ti fidi sguscia dalla macchina e ti viene incontro sorridendo. Ma ha lasciato aperto lo sportello della macchina e ti chiede se vuoi un passaggio.
Messaggio sconsolante, che allude a un mondo caratterizzato da un crollo totale delle certezze e delle identità, da un’ambiguità costitutiva che va ben al di là di qualunque complotto smascherato. Un mondo ben diverso, dunque, da quello che a Jim Garrison (Kevin Costner), procuratore distrettuale di New Orleans e protagonista di JFK, viene illustrato dal misterioso Mr. X (Donald Sutherland), membro deluso e ribelle del complesso militare industriale, che in un lunghissimo monologo, collocato al centro esatto del film, scopre la trama dietro la morte di Kennedy, restituendo a una realtà scompaginata e incerta nei suoi stessi fondamenti il senso di una trama coerente, seppur tutta connotata in negativo.
Messaggio che richiama istantaneamente quello, ben più radicale, suggerito da Francis Ford Coppola ne La conversazione: film che gioca in anticipo sugli eventi del Watergate mettendo in scena la disgregazione di un individuo, professionista delle intercettazioni ambientali e incapace di leggere il suo stesso materiale, fino a ritrovarsi, da manipolatore, manipolato, privato dell’unico punto fermo di un’esistenza consacrata alla solitudine e al senso di un mestiere svolto a regola d’arte. Manipolazioni della realtà, cooptazione dell’individuo (“non possiamo più lasciarti fuori”, dice Higgins a Turner), circolo chiuso in cui tutti spiano o sono spiati: una condizione la cui forma cinematografica definitiva è stata forse il gigantesco ed entusiasmante giocattolo di Tony Scott, Nemico pubblico.
Da questi come da altri film, risalenti agli anni settanta o, nel caso di JFK, affondati nella logica degli anni sessanta−settanta, si può dedurre un assioma semplice, che le ricerche di molti “nuovi americanisti” hanno reso dominante nel quadro proposto dai Cultural Studies: la variante liberal della teoria della cospirazione condivide con quella conservatrice e maccartista degli anni cinquanta la stessa necessità di riproporre, contro la grande paura del killer solitario alla Oswald come variabile impazzita del sistema, il delirio, questo sì sistematico, della paranoia, l’individuazione di un’entità fantasmatica (“Phantom”, in The Public Burning, era chiamata la minaccia comunista) che deve perdere le sue connotazioni di ombra, pericolosamente vicina a colui che la getta, e assumerne altre: prima fra tutte, quella di “organizzazione”, di grande cervello spietato e disumano, negazione dell’impulso individuale su cui si è edificato il modello sociale americano.
Per tornare al titolo “trasposto” del reportage di Hunter Thompson, se la paranoia è, per alcuni aspetti, la versione dominante della paura o la grande paura sociale e collettiva americana, la sua variante degli anni sessanta e settanta vive di un precario equilibrio, si basa su una costruzione in cui l’eiezione dell’altro si compie al prezzo di un sacrificio e di una ferita della stessa identità americana: per usare le parole di Eisenhower, pure grande protagonista della Guerra Fredda, non si dovrebbe dare nulla per scontato.
Proprio mentre Stone è impegnato a proporre la sua personale versione, del tutto sanitized, della paranoia da complotto, DeLillo mette sulla scena del suo Libra, il grande romanzo americano dedicato all’omicidio Kennedy, tre diverse versioni del carattere americano, cui corrispondono altrettante opzioni legate all’immaginario paranoico. E lo stesso DeLillo non ha mancato di dare il suo giudizio, puntuale e perfettamente in linea con quanto detto finora, su JFK: “Penso che, nonostante tutta la sua vigorosa immaginazione, JFK non sia stato altro che l’ennesimo esempio di un tipo particolare di nostalgia: la nostalgia per il master plan, il Grande Piano, la cospirazione, che spiega assolutamente tutto. Be’, semplicemente non credo che questa sia la cosa da fare.”
Nella versione offertane da Libra, la paranoia svela quella che è la sua natura autentica. È figlia del crollo delle grandi narrazioni, dei regimi linguistici che autoaffermavano il proprio valore veritativo; è espressione dell’annaspare di una soggettività ferita a morte, privata della sua centralità e immersa nel flusso vorticoso della storia. Forma della condizione postmoderna, dunque, ma anche del rifiuto di adattarsi a essa, del tentativo di sfuggirne le conseguenze logiche.
Dei tre personaggi centrali di Libra, Win Everett, agente della CIA “bruciatosi” con la Baia dei Porci, elabora il suo piano − finalizzato, peraltro, a “mancare” Kennedy e non a ucciderlo − senza attribuire eccessiva importanza al fine da perseguire e concentrandosi invece sull’eleganza e sulla logica interna. Non diversamente dalla paranoia, di cui è la faccia attiva, la cospirazione risponde non già alle manovre di un potere astratto e impersonale, ma al bisogno di certezze che restituiscano il soggetto a una posizione di dominio. Un vero e proprio progetto “autoriale” che ha a che fare con la capacità di creare dal nulla una situazione, un intreccio, addirittura una persona:
Avrebbe messo insieme una persona, costruito un’identità, un insieme persuasivo di abitudini. Voleva un uomo con fissazioni e tic plausibili. Avrebbe creato una stanza avvolta nell’ombra, la stanza del tiratore scelto, che gli investigatori avrebbero trovato, esponendo ogni fatto a un esame scrupoloso, seguendo tutti gli amici, i parenti, le conoscenze occasionali e lasciandosi guidare da loro fino a quella stanza piena di ombre. Le nostre vite sono molto più interessanti di quanto crediamo. Siamo personaggi in una trama, senza però la compressione e la luminosità. Le nostre vite, esaminate con cura in tutte le loro affinità e i loro collegamenti, sono ricche di suggestioni, di temi e di svolte involute che non ci siamo mai concessi di focalizzare a pieno. Avrebbe mostrato le simmetrie segrete in una vita qualsiasi.
La vera paura, descritta come “eerie panic”, scatta in Everett quando la sua finzione ordinata, il suo delirio sistematico vengono sconvolti dall’irrompere sulla scena di una realtà, quella di Oswald, che corrisponde perfettamente alla sua immaginazione. La legge del caso, della coincidenza, tanto più insopportabile quanto più, come suggerisce il pilota David Ferrie, sembra funzionare al di fuori delle connessioni di causa ed effetto. Ne consegue quindi una sensazione di panico, cui lo stesso Ferrie sa di potersi sottrarre solo attraverso una variante radicale della paranoia, nella sua versione di sindrome da assedio, o mania di persecuzione: “C’è qualcosa che non ci dicono. Qualcosa che non sappiamo. C’è sempre dell’altro, ed è in questo che consiste la storia. È la somma di tutte le cose che non ci dicono.”
Una teoria, quella di Ferrie. Come una teoria è quanto dovrebbe riuscire a costruire Nicholas Branch, l’analista della CIA che viene incaricato di scrivere un rapporto sull’omicidio Kennedy:
Dedichiamo dunque la nostra vita a capire questo momento, separando gli elementi di ogni affollatissimo istante. Costruiremo teorie che splendono come idoli di giada, affascinanti sistemi di ipotesi, multiformi, eleganti. Seguiremo le traiettorie delle pallottole all’indietro, fino a raggiungere le vite che restano nell’ombra, uomini in carne e ossa che si lamentano nel sonno. Elm Street. Una donna si chiede come ha fatto a ritrovarsi seduta sull’erba, circondata da schizzi di sangue. Decima Strada. Una testimone lascia le scarpe sul cofano di un’auto della polizia con il guidatore ferito. Una stranezza, sente Branch, che è quasi sacra. E c’è molto di sacro qui, un’aberrazione nel cuore stesso della realtà.
Aberrazione, margini di inspiegabilità, opacità costitutiva del reale, proprio come nel delirio paranoico de La conversazione. E al culmine di questo processo, Lee Harvey Oswald, irriducibile alle testimonianze che lo riguardano, uomo della folla e incarnazione dei sogni di un cospiratore, filocomunista e filoamericano, marine e spia.
Gli occhi di Oswald sono grigi, sono azzurri, sono castani. È alto uno e settanta, uno e settantacinque, uno e ottanta. È mancino, è destro. Ha la patente, o non ce l’ha. È un tiratore fantastico, è una schiappa. Branch ha elementi a supporto di tutte queste affermazioni, testimonianze oculari e documenti raccolti dalla commissione.
Oswald sembra diverso anche da una foto all’altra. È robusto, fragile, labbra sottili, lineamenti marcati, estroverso, timido, sembra un impiegato di banca, ha un collo taurino. Sembra chiunque. In due foto scattate durante il servizio di leva sembra un temibile assassino e un eroe con la faccia da angioletto. In un’altra foto è seduto di profilo con un gruppo di altri marines su un tappeto di stuoia sotto delle palme. Quattro o cinque di loro sono in posa frontale. Somigliano tutti a Oswald. Branch pensa che somiglino tutti a Oswald più della figura di profilo con la quale è stato identificato ufficialmente.
Le apparizioni di Oswald. Le immagini multiple, le percezioni divise, colore degli occhi, calibro delle armi: tutto sembra anticipare quello che accadrà. Le indagini eterne, che accumulano fatti senza alcun ordine. Quanti colpi, quanti tiratori, quante traiettorie? I grandi eventi generano la loro rete di incongruenze. I semplici fatti non sono facili da autenticare.
He looks like everybody: questa l’unica possibile descrizione di Oswald. John Doe, incarnazione dell’uomo qualunque come quintessenza del carattere americano, è il nome d’arte del serial killer di Seven (Kevin Spacey), forse l’ultimo di una grande stagione di film su assassini seriali che include obbligatoriamente Manhunter di Michael Mann, Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, Henry: Pioggia di sangue di John McNaughton, Assassino senza colpa di William Friedkin (e, coda decentrata ma certo non irrilevante, Summer of Sam di Spike Lee). Ultima incarnazione, forse, della paranoia americana, di un’America che, nella seconda metà degli anni ottanta, svanito il progetto reaganiano di un ritorno all’immaginario manicheo e alla sindrome da assedio, guarda dentro se stessa e scopre nella pratica dell’assassinio senza ragioni apparenti una forma estrema, quasi depurata, del suo individualismo senza compromessi. Il serial killer è uno come noi: è il timido Francis Dollarhyde di Manhunter o lo Henry Lee Lucas di Henry, pioggia di sangue, che uccide senza motivi particolari, quasi senza il gusto di farlo, e che è gentile, capace di amore per la sorella di Otis, suo “compagno di merende” (salvo poi ucciderla). Quando è portatore di una devianza più vistosa, come nel caso del Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti, è sufficiente esplorare il suo passato per scoprire le radici ultime, a proprio modo umanissime, del suo desiderio. Stesso discorso vale per Oswald: opacità, imperscrutabilità, la sua, che nasconde un’umanità straziata, una storia, un soggetto e un personaggio che preme per tornare a vedere la luce, per trovare finalmente un suo spazio nel flusso della storia.
Non mancano, naturalmente, i tentativi di contenimento, di normalizzazione, di fronte a una vera e propria ondata di “assassini senza perché”: l’intera vicenda dell’Unità di scienze comportamentali di Quantico, Virginia, è in questo senso esemplare. Al di là di qualsiasi valutazione sui risultati raggiunti nella caccia ai serial killer (ma è quanto meno legittimo osservare che, in molti dei casi più celebri, l’identificazione e l’arresto sono avvenuti per coincidenze), scopo dell’Unità, come dimostra con dovizia di particolari il libro Mind Hunter, scritto da John Douglas, esemplare cacciatore di assassini, è “trarre conclusioni quando cominciano a emergere precisi schemi di comportamento”; costruire dunque uno schema, un “plot” scritto, diretto e recitato da una sola persona ma non per questo meno avvolgente, capace di tradursi, per la sua stessa serialità, in una nuova incarnazione − anche se pericolosamente simile all’individualismo americano − di quella compulsione “meccanica” che una società di singoli irriducibili alla massa può escludere da sé. Si parla di “firma” dell’assassino, di ripetizione, di schematismo, e si pensa alla superiorità intrinseca del cacciatore, alla sua capacità di improvvisare, di correggere il tiro, di mettere a frutto la propria esperienza, di dominare razionalmente il disegno altrui anziché lasciarsene guidare. Ipotesi, questa, che le ampie parti narrative del libro di Douglas tendono spesso a smontare, rivelando una realtà che non sarebbe dispiaciuta al Nicholas Branch di DeLillo: coincidenze, non connessioni; impulsi, non progetti. Identificarsi nell’assassino? Sì, ma mantenendo un distacco euclideo, pena la follia che coglie il detective Graham (William Petersen), protagonista di Manhunter; quel distacco che non è possibile in Henry proprio per il rifiuto di ricorrere alla figura dell’investigatore e all’armamentario rassicurante della firma e dell’indagine, e per la decisione di limitarsi a registrare una escalation di sangue che ha ben pochi precedenti nella casistica criminale. Da cui l’intollerabilità della violenza consumata nel film e l’accanimento censorio che non ha invece colpito film certo non meno crudi come Il silenzio degli innocenti. Esempio, quest’ultimo, di abile “riconduzione” della paralizzante anomia del serial killer nell’alveo dell’interpretazione e della sindrome da assedio positiva (e premiato, infatti, con i quattro grandi Oscar, attore, attrice, film, regia). Strategia, questa, resa operativa attraverso lo sdoppiamento del serial killer in due figure distinte: l’omicida vero e proprio, poco più di una funzione narrativa, e il dottor Hannibal Lecter (Anthony Hopkins), serial killer cannibale e guida intellettuale. Ma soprattutto uomo europeo, oltre che nell’origine, nel nome (variante del latino “lector”) e nei gusti − disegna a memoria una vista del duomo di Firenze dal Belvedere, e a Firenze lo ritroveremo nel seguito de Il silenzio degli innocenti, sempre firmato da Thomas Harris e poi trasposto per il cinema da Ridley Scott con lo stesso titolo, Hannibal −; proprio come europeo era il killer prezzolato Joubert ne I tre giorni del condor. Due assassini a sangue freddo, intelligenti, imperturbabili, capaci di offrire ai due protagonisti rigorosamente americani chiavi di lettura diverse e di mostrare il mondo di sangue e morte che li circonda in tutta la sua complessità e ambiguità. Nel mondo senza un passato di Turner, segno concreto di quest’ambiguità sarà la macchina che gli si ferma accanto, il volto amico, la caduta dei confini tra fiducia e sfiducia nel finale più amaro della stagione cinematografica delle grandi cospirazioni; in quello di Clarice Starling (Jodie Foster), l’agente dell’FBI protagonista de Il silenzio degli innocenti, sarà l’invito a leggere prima di tutto il proprio passato, restituendo agli agnelli la loro voce. Agli agnelli, ma anche al desiderio di Buffalo Bill, come, in Libra, a quello di Oswald: un invito ad abbandonare il terreno tranquillo della paranoia e del suo delirio sistematico per immergersi, una volta per tutte, negli spazi, forse ancora vergini, della paura e del disgusto.
Nota dell’autore
Le traduzioni dei passi dai romanzi di Coover e di DeLillo sono mie. Per DeLillo, ho preferito ritradurre anziché tenere conto della versione italiana (Einaudi, 2000), per poter sottolineare con maggiore efficacia le connessioni del romanzo alla tematica della paranoia.
La citazione da I tre giorni del condor è il frutto di una trascrizione verbatim dalla versione cinematografica italiana.