Una saga familiare ben strutturata, dalla coerenza storica e dalla trama intricata, in cui i fatti dei Florio, mercanti di spezie e non solo, in una Sicilia dell’Ottocento, si snodano per tre generazioni.
Stefania Auci ne I leoni di Sicilia narra, in pieno stile post-verista, le avventure di quella che potrebbe essere definita una normale famiglia ottocentesca. Emigrati da Bagnara Calabra, i Florio, contrariamente a quanto avvenuto dopo l’unificazione dell’Italia, si spostano a Palermo.
Questo evento, oltre a dare il via alla narrazione vera e propria della saga familiare, è un punto cruciale per la contestualizzazione del romanzo. Infatti, il Regno borbonico in quegli anni sta affrontando la rivolta repubblichina. In questo frangente, per commercianti come i Florio, l’ultima spiaggia (in tutti i sensi) è la Sicilia. Unico porto sicuro del Mediterraneo, estraneo alla lotta tra francesi e inglesi che imperversa per l’ottenimento delle rotte commerciali con le coste meridionali e orientali. In Sicilia vige la protezione dei nobili emigrati dalla terraferma del Regno. Sempre snobbata dalla politica e dalla storia, quest’isola si rivela in quegli anni motore della Storia, luogo d’incontro favorevole al proliferare della ricchezza.
Ma se la struttura si annoda bene intorno al bastone della storia, il punto cruciale è il linguaggio. Stefania Auci tenta, in un exploit verista, di ridurre a dialetto i discorsi diretti, citandone poi la traduzione nella riga successiva. Se sicuramente il risultato linguistico può apparire migliore dei tentativi di miscugli posti in essere da Camilleri con il suo commissario, tuttavia quello che manca è il pretesto per usarli, e il contesto.
Per pretesto intendo che quanto avviene nei dialoghi in italiano non creerebbe alcuna sfasatura linguistica con i fatti che li contornano. Ma la Auci, inserendo alcuni parlati dialettali, offre una idea distorta del dialogo. Alti e bassi linguistici che non danno né tolgono alcunché alla poeticità discorsiva dei suoi personaggi.
Con contesto, intendo dire invece che tali dialoghi dialettali non danno alcun connotato semiotico a chi li pronuncia, non sono caratterizzanti del personaggio in quanto, utilizzati sia dai nostri immigrati dalla Calabria, sia dai siciliani, mancano della sfumatura linguistica di precisione che potrebbe giustificare tale espediente.
Insomma, la caratterizzazione linguistica, in questo caso, pare più un vezzo d’autore che una richiesta esplicita del romanzo. A riprova della scarsa incisività del parlato dialettale è che tale espediente linguistico viene utilizzato esclusivamente in battute non fondamentali per il prosieguo della situazione narrativa o, comunque, non vitali alla comprensione di quanto virgolettato.
Ma se fin qui ci si sofferma al contesto scrittorio de I leoni di Sicilia, nel procedere con la lettura, quello che salta all’occhio sono i predecessori del genere. Chiaramente, per motivi geografici e per motivi tematici, subito ci si può proporre di vedere Mastro Don Gesualdo alla guida della famiglia Florio. Perché sì, si nota palesemente come la cerchia nella quale si cerca di iscrivere il romanzo sia quella che ha nei suoi precedenti Verga e De Roberto. Si badi, quello di Stefania Auci è tutt’altro che uno scimmiottamento, anzi. La sua maestria narrativa fa rivivere quelle emozioni di verista memoria, ma le cambia, le rende nuove e non ne fa sentire la mancanza. Elabora alla perfezione ciò che la Sicilia ha nel proprio DNA letterario.
Sarebbe riduttivo definire I leoni di Sicilia saga familiare (nonostante il sottotitolo citi esattamente queste parole), nello stesso modo in cui sarebbe riduttivo parlarne come di un contemporaneo Malavoglia. Siamo ben oltre, siamo incuneati nei fatti dettati dalla storia, siamo all’interno di una sociologia complessa, come in maniera esatta è descritta quella siciliana dell’Ottocento.
L’unica stonatura riguarda la descrizione dei sentimenti femminili di subalternità al marito. Ecco, ancora una volta, la sensazione che si sprigiona è quella di una condiscendenza pretestuosa al politically correct in cui, anche a costo di decontestualizzare i fatti narrati, si improvvisano personaggi protofemministi.
Con questo non si sta cercando di dire che sentimenti di rivalsa di natura emancipatoria non esistessero o fossero addirittura sbagliati (non lo sono e non lo saranno mai), tuttavia è la modalità attraverso cui tali sentimenti sono esposti a renderli elementi esterni al contesto preso a teatro delle mosse dei personaggi.
Il romanzo della Auci apre a una ulteriore e ultima considerazione, inerente alla situazione letteraria italiana. Come Traina o Zago citavano sovente, la Sicilia si rivela la terra in cui la letteratura italiana contemporanea sta raccogliendo i suoi frutti più prelibati. Sarebbe da trattare il tema separatamente, azzardare ipotesi sui motivi, ma anche il romanzo della Auci, pur contenendo quelle imprecisioni di cui prima, è testamento di tale proliferare di buona letteratura proveniente dall’isola.
Certo non si tratta di casi isolati, o forse è proprio il contorno d’isolamento a mantenerlo, ma esiste un filo rosso ininterrotto, certamente evolutosi e in evoluzione che parte da Verga, attraverso De Roberto, Pirandello, Tomasi di Lampedusa, passando per Stefano D’Arrigo con l’indimenticabile Horcynus Orca, poi con Bufalino e Sciascia e ancora un certo tipo di letteratura di Camilleri (quella più lontana dal commerciale e dal lavoro seriale) e che, pare, Stefania Auci stia tenendo vivo a far riflettere indiscutibilmente riguardo un determinato stato di conservazione dell’arte, scrittoria nel nostro caso.
Lorenzo Bissolotti
Recensione al libro I leoni di Sicilia. La saga dei Florio di Stefania Auci, Editrice Nord 2019, pagg. 430, € 18,00