Odio il biliardo. L’ho ricordato oggi, mentre passavo a fianco all’unica sala giochi del paese. Dalla porta a vetri tappezzata di giornali arrivava il vociare dei ragazzi e la musica della radio. Poi all’improvviso, a coprire ogni altro suono, il rumore secco della bocciata. E subito è affiorato quell’odio. Che poi ci ho pensato, che sembra strano ci siano odi che si possono dimenticare, come le facce di certe persone, eppure è proprio così, anche per odiare bisogna ricordare. Odio soprattutto le palle del biliardo, e il motivo è cosciente, chiaro, lineare. Le odio perché da bambino sognarle annunciava l’approssimarsi delle terribili febbri che mi soggiogavano con cadenza mensile. Era il mio incubo fisso, un me in miniatura madido di sudore che correva da una parte all’altra del panno verde del biliardo per scansare le enormi biglie che volevano schiacciarlo. Mi sfioravano continuamente ma io riuscivo ogni volta a scansarle. Sudavo nel sogno come nella realtà. Non potevo sbagliare: l’arrivo di quell’incubo portava con sé una febbre altissima che mi costringeva al letto per almeno tre giorni.
Ma il vero problema non era la sofferenza, il tremore, il sudore, il mal di testa. Era non poter andare a scuola. Che non sarebbe un male in sé, ma significava doversi poi giustificare al rientro. E non a voce. Per iscritto. Su un libretto con la copertina azzurra. Su un maledetto libretto al cui angolo in basso a destra qualche scellerato scampato all’orfanitudine aveva scritto Il padre o chi ne fa le veci. Ogni volta che dovevo mettermi di fronte a quella scritta avvertivo un male dentro, una stremezza come fossi il supersantos quando schiattava tra le spine del roseto, che niente più di quelle parole riusciva a farmi sentire il mezzorfano che ero. Non avevo un padre. Le mie assenze me lo ricordavano ogni volta. Era come giustificarmi della vita, come chiedere scusa del fatto stesso che esistevo, come se non avere un padre mi escludesse dall’umano consorzio. Ricordo la prima volta che lessi quella frase, all’inizio della scuola elementare, che mi guardai intorno come se mi fissassero, che lo sapevano tutti, compagni, maestre, bidelli, mura, crocifissi, tutti, che ero l’unico, tra loro, il solo prescelto che avrebbe dovuto far ricorso alle veci. Non sapevo nemmeno cosa significasse quella parola, veci, ma suonava brutta, come certi fischietti a carnevale che dovevo soffiarli fino in fondo per sentirne il suono mentre guardavo la carta srotolarsi, quello sforzo per produrre il brutto, quell’ossigeno per sempre tolto al ciclo naturale, quel sopraggiungere al limite estremo in cui il respiro manca e non riesci più a riprenderlo, che per un attimo i polmoni si sospendono, e non sai più se ritornerà, se farai ancora parte della vita o svolterai nell’invisibilità del trascorso. Un suono acidulo, striminzito, veci, che sembrava la parte mancante del verseggiare latineggiante della maestra zoppa, veni, vidi, vici, o forse la sua sintesi più riuscita.
Alzai la mano. Adesso sì che avevo gli occhi appuntati sul petto come una medaglia al merito umano. Dimmi Domenico. Io non ho padre, mia madre può firmare lo stesso? Lo dissi così basso che nessuno sentì. La maestra aspettava ancora, e allora guardai le sue labbra pronunciare la disprezzata parola che come un punteruolo avrebbe picchiettato e bucherellato e sforacchiato il foglio riciclato della mia esistenza. Cosa? E non lo disse, così, semplicemente, ma accompagnandolo col protendersi del collo, con l’offerta dell’orecchio, con la strizzatura dell’occhio più prossimo. Cosa? Ripetei la domanda, con lo stesso tono di voce, questa volta udibile per il silenzio calato in classe. Lei sorrise, mi disse che certo, poteva firmare anche mia madre, ma quelle parole le avvertii appena che io ero rimasto al sorriso inatteso della mia Gioconda monocalzante, che illuminò latebre e scoramenti. Fu un indimenticabile giorno in cui tutto in una volta scoprii la certificazione ufficiale della mia mezzorfanezza, l’inadeguatezza tonale della mia voce alle frequenze del mondo, l’immensurabile appagamento della compassione. Essere mezzorfano creava negli adulti una commiserazione che quando avvertivo sulla pelle, mi appagava transitoriamente del non essere figlio.
Con Gioconda funzionò, ovviamente solo una volta, la prima. Poi tutto ritornò alla normalità e io divenni come gli altri, sebbene mi sentissi diverso da tutti. Per fortuna c’era la gracilità di costituzione. Quella che s’era abbracciata maestra Gioconda quando aveva sei anni di una stretta che non la lasciò più, una stretta al cuore, improvvisa, di notte, che le intaccò il sistema nervoso e la costrinse per un mese in un letto dal quale non ridiscese più come prima. Gracilità di costituzione dissero in paese echeggiando le parole del medico Vonella, gracilità di costituzione, che il suo compagno di giochi Quirino pensò essere il modo con cui gli adulti chiamavano la fame che i bambini hanno di fiori d’oleandro, quelli che per gioco la sera prima Gioconda aveva strappato a morsi dall’albero. Forse per questo che nei tempi della fioritura, ella restava a casa a settimane alterne. Le supplenti erano sempre diverse e con loro potevo ogni volta riproporre il rito dell’orfanità, un rito autentico in cui il dolore della coscienza e il sollievo della commiserazione si mischiavano. Ma il dolore vinceva sempre, sempre, il padre o chi ne fa le veci, e così un giorno mi stancai di parlare, di spiegare, di mostrare al mondo la mia non identità. Una mattina, stanco di spartire l’intima tragedia con un essere umano che non avrei mai più rivisto, evitando la firma di mia madre con la scusa del libretto dimenticato, appena arrivato a scuola mi sedetti al banco e sotto l’indicibile scritta, sforzandomi di imitare la scrittura spigolosa dei grandi, inventai un nome qualunque e firmai diventando il padre di me stesso. La supplente non disse niente e nemmeno io: tornai al mio posto, confondendomi col mondo, e per tutto il giorno non scambiai parola con anima viva.