Nikolai Prestia con Dasvidania, che esce da Marsilio, crea un insieme di testi che fungono da cassa di risonanza dell’intero popolo russo e delle sue disillusioni post-sovietiche. Il protagonista è Kola, un orfano cresciuto a pane e solitudine e soprattutto con i libri di Dostoevskij e con la compagnia del direttore dell’istituto in cui vive scoprirà il potere salvifico della lettura, dell’immaginazione e della fantasia. Un esordio magico e delicato, in bilico tra simbolismo e infanzia.
Cristiano Saccoccia
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Taciturno, il viso angelico sempre cupo. Capelli dorati che sembrano spighe di grano, ma morbidi al tatto come lana in inverno. Kola, il suo nome. Di lui si diceva che non sapesse parlare. Asociale, detestava gli altri ragazzini dell’istituto. Era come se non ci fosse. Solo durante i pasti si rivelava la linfa vitale che gli scorreva nel corpo: masticava velocemente e con un leggero affanno, e si poteva, ma non sempre, udire il timbro della sua voce quando scandiva: «Un’altra fetta di pane, signore. Per favore.» Era così raro sentirlo parlare che la sua voce faceva l’effetto di un dono: era molto dolce, come quella di tutti i bambini della sua età. L’edificio dell’istituto si presenta come un palazzone grigio chiaro, tanto chiaro che in inverno si perde nella neve. Più lungo che largo, accoglie circa ottanta orfanelli in venti stanze, tutte della stessa misura. Ciascuna delle stanze è arredata con quattro letti e due armadi. C’è anche
un tappeto, uno di quei tappeti colorati donati dalle fondazioni. L’inverno in Russia è pesante, basta una corrente d’aria perché il ghiaccio si formi anche sui termosifoni che lavorano al massimo, e i tappeti diventano alleati necessari. L’edificio è una vecchia caserma riadattata per
dare una casa ai figli della strada. Al pianoterra, nei laboratori, dalle sei del pomeriggio fino a prima di cena, i ragazzi svolgono attività ricreative: c’è un laboratorio fotografico, uno artistico e uno di falegnameria, il preferito di Kola. Al pianoterra si trova anche la mensa, accogliente, con i suoi ventidue tavoli, di cui due riservati al personale. Poi c’è la stanza del direttore, un uomo pacato, paterno. Il suo nome è Nikolai Nikolajevich; prematuramente vedovo, passa molto tempo con i “figli della sua anima”, come li chiama. L’arredamento del primo piano è ridotto all’osso: sul corridoio che sembra un fiume si aprono grandi porte verdi che conducono nelle stanze. Alle estremità del corridoio, due piante crescono soltanto in inverno e sembrano
morire in estate, quando l’istituto si svuota dei ragazzi che vanno nei campi estivi. L’istituto si trova al centro di un grande piazzale.