Oggi vi presento Maria Giorgi, angelo custode dell’arte. Così mi piace pensare a chi si occupa della conservazione e il restauro.
Tra i vari interventi di rilievo, Maria Giorgi ha lavorato al restauro della tonaca di San Francesco e Santa Chiara.
Parlare con lei è sentire la voce di chi, prima di chinarsi e puntare le mani e lo sguardo sul dettaglio di un oggetto, ha guardato con attenzione e fatto una lettura appassionata dell’uomo e della Storia.
Maria Giorgi ha la passione di chi lavora per una gloria, quasi anonima ma profonda; di chi gioca insieme al tempo perché gli oggetti lo accompagnino il più a lungo possibile senza perdere splendore.
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Come sei arrivata alla passione per i tessuti, il restauro, la conservazione?
Si è trattato di un caso, ammesso che il caso esista. Io volevo fare l’Istituto d’arte. Mi sembrava che fosse la scuola adatta, ma negli anni Ottanta era molto chiacchierata. C’era un ambiente un po’ libertino e i miei, che erano due professori universitari e io una fanciulla troppo ribelle, non mi hanno mandata.
Mi hanno mandata invece al liceo artistico. Il caso volle avesse un indirizzo sperimentale in Restauro del tessuto. Si trattava di una trasformazione delle Scuole laiche Leopoldine o Regie aperte nel 1784, nell’ex monastero di San Niccolò in Sasso detto di Monna Agnese, nei pressi del Duomo di Siena. Lì bambine e ragazze, oltre a imparare a cucire, ricamare, fare la maglia e tessere lino, canapa e seta, potevano studiare. C’erano ancora nella scuola dei telai antichi, attrezzi da ricamo e alcune insegnanti che provenivano da quella formazione.
Quindi potevamo accedere a tutte le nozioni relative alle tecnologie legate ai tessuti e alle fibre tessili. Inoltre il liceo si era collegato a una Fondazione-Museo e scuola di restauro famosissima in Svizzera, la Abegg-Stiftung di Berna, esclusivamente volta alla collezione e conservazione di tessili storici.
E così come nelle Accademie di Belle arti o nei Conservatori musicali, il fatto di iniziare giovanissimi a suonare, scolpire o dipingere ti forma, io a diciannove anni, quando sono uscita, ero già una restauratrice di tessuti.
E finito il liceo cos’hai fatto?
Mi iscrissi a Filosofia indirizzo Antropologia Culturale, che mi interessava molto. Contemporaneamente feci un corso triennale della Regione Toscana in Restauro del tessuto. In quegli anni l’Opificio era chiuso per la messa a norma dei laboratori, così alcuni docenti dell’Opificio furono nostri insegnanti.
Una volta finito il corso della Regione Toscana, presentai varie domande all’estero e feci un anno di internato nei laboratori di restauro del tessuto del Victoria & Albert Museum di Londra per poi seguire altri corsi all’estero.
Oggi, fortunatamente, la formazione è normata e passata al mondo accademico. All’epoca neppure l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma aveva un settore specifico sul restauro di opere tessili.
Cosa insegni all’Accademia di Belle arti di Brera e che relazione ha il restauro di tessuti con quello di opere come i quadri?
Adesso insegno due materie nel Corso di laurea magistrale in restauro: Tecnologie dei materiali per il restauro in tutti e tre i profili esistenti (lapideo, tele e tavole, cartaceo) e Tecniche della lavorazione dei materiali tessili, materia più attinente alla mia formazione originale. Quest’ultima solo per gli allievi di restauro di tele e tavole, perché il tessuto è il substrato della pittura. In realtà bisogna dire che i nostri due settori, quello del restauro dei dipinti e quello di restauro dei tessuti, spesso si incontrano in alcune tipologie di oggetti che a Siena, ma anche altrove, sono molto usuali.
Per esempio quali?
Per esempio il Palio. Uno stendardo di seta dipinto che può avere delle decorazioni, essere ricamato. La raffigurazione pero è solo dipinta. Così come le bandiere di Siena o quelle del Museo del Risorgimento di Milano che ho restaurato alcuni anni fa, oppure gli stendardi da processione, i succhi d’erba. I finti arazzi sono ibridi: in parte tessuto, che quindi si tratta con le metodologie del restauro del tessuto; in parte dipinto, che si restaura con le tecniche del restauro dei dipinti.
Hai lavorato al restauro della tonaca di San Francesco e Santa Chiara. Come si fa a sapere che si tratta veramente di loro?
Nel caso delle vesti su cui ho lavorato, si tratta di un corpus di manufatti che hanno sempre seguito le Sorelle Povere di Santa Chiara. Quindi si sono spostate da San Damiano alla Basilica di Santa Chiara, costruita proprio per loro dopo la morte della Santa tra il 1257 e il 1265 attorno all’antica chiesa di San Giorgio, che fino al 1230 aveva custodito le spoglie di San Francesco, mentre quelle di Santa Chiara vennero traslate già nel 1260 in questo complesso, nella cui cripta oggi si trova la tomba della Santa che fu realizzata nel 1850.
Tutti i cimeli e il corpus delle relative reliquie sono sempre state in questo luogo. Lo confermano sia le fonti di archivio sia le cronache del monastero dove si racconta quello che accade giorno per giorno. Anche io, quando entro, vengo registrata. Si scrive cosa faccio, come un diario di bordo.
Periodicamente nei secoli è sempre stata fatta una revisione dal Vescovo o dalle autorità ecclesiastiche preposte. Si sono aperti i reliquiari, controllato lo stato dell’arte e stilato un elenco che poi viene firmato e timbrato con il sigillo vescovile o papale che chiude anche le cassette contenenti le reliquie. Forse in altri casi sì, ma in questo non vi sono dubbi sull’autenticità del corpus di reliquie conservate nel Protomonastero di Santa Chiara, un vascello che solca i secoli.
Che cosa ti dicono questi oggetti?
Ti dicono quello che ti dicono tutte le grandi opere della Storia, come scriveva lo storico dell’arte senese Cesare Brandi: «Il restauro è il momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica, in vista della trasmissione al futuro». Le opere parlano dell’uomo e della sua storia.
Ne cito alcuni su cui ho lavorato. Il Piviale di Pio II, opera ricamata in opus anglicanum direi titanica, con il disegno preparatorio, i pregiatissimi materiali e con tutta una lavorazione che costava come costruire una Chiesa intera. Infatti Papa Pio II la donò alla città che aveva ideato, Pienza. Oppure il Parato Vanzi, utilizzato dal Vescovo Vanzi di Orvieto e ancora lì conservato, utilizzato per l’apertura del Concilio di Trento. Un ricamo in oro e sete policrome realizzato su cartoni di Bartolomeo di Giovanni e Botticelli, con un fondo in velluto rosso in seta alto-basso cesellato bouclè.
Oggi si è perso questo collegamento tra l’opera e l’ingegno dell’uomo in tutte le sue forme. C’è forse nell’architettura, forse nel cinema, nella grandi opere ingegneristiche, ma noi non siamo più votati all’arte, sia arte maggiore che arte minore come è il tessile. Non si dedica più quel livello di impegno artistico e tecnologico che vi si dedicava in passato.
Quindi le opere sono una specie di porta, di spaccato sulla Storia, perché dentro ci sono delle competenze, delle nozioni dei tipi di materiali, che sono così ricchi di significati storici, artistici, antropologici, che nessun altro momento come l’intervento di restauro può disvelare.
Certo, nel caso del Santa Chiara e San Francesco la valenza è meno materica, perché sono materiali poveri ed è più simbolica, antropologica e spirituale. Però anche quella è una valenza tecnico-artistica. Perché Francesco si disegnava, si cuciva a volte l’abito per conto suo, come fece con il mantello del Vescovo Guido, che ti racconta la sua storia, il suo progetto teologico e spirituale attraverso un lavoro di sartoria.
Dicevi che una cucitura si riconosce dall’altra.
Dopo averci lavorato trenta anni, è chiaro per me. Santa Chiara costruisce questo abito di lino per San Francesco Diacono, che poi San Francesco non indosserà mai. Vi sono tipi di cuciture che si sa per certo sono fatte da lei, e poi anche sulla sua veste si ritrova lo stesso tipo di cucitura, quando borda il polsino della sua tonaca. Piano piano inizi a riconoscere la mano. Francesco si rattoppa la tonaca, oppure ancora cuce il mantello del Vescovo Guido sul suo primo abito penitenziale: il punto è sempre lo stesso, meno regolare e accurato di quello di Chiara.
Come una calligrafia?
Come una calligrafia. Esattamente. Quindi l’atto del lavoro artistico, artigianale, ha un tratto specifico che è quello, come le pennellate di un artista.
Sembra che con il tempo la lavorazione dei tessuti invece di progredire si sia semplificata, abbia perso valore.
Questo è un tema molto importante. Quando tengo Tecnica della lavorazione delle fibre tessili, a Brera, come compito finale faccio fare ai miei studenti una specie di tesina su una fibra. Possibilmente con attenzione al fatto che sia una fibra sostenibile. Perché iniziando dalla parte strutturale, morfologica, chimica e poi fino a tutti i processi che la portano a diventare un manufatto tessile, sino ad arrivare agli interventi di restauro su fibre antiche, anche loro possano osservare questa enorme differenza.
Non è vero che si è semplificato. Si è semplificato apparentemente nel risultato finale. I processi tecnologici si sono complicati e sono molto più organizzati nella direzione di ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio. Quindi, se coltivi il cotone, fai delle grandi estensioni di cottone dove, per ottenere una fibra del cottone della stessa lunghezza, passi con dei piccoli aeroplani con un veleno che uccida le piante tutte nello stesso momento.
Quel terreno, per essere nuovamente coltivato a cotone, si deve estendere, perché si avvelena insieme alle piante e diviene sempre meno fertile.
Quindi dal punto di vista tecnologico i processi sono molto più complessi, su larghissima scala, per ottenere più materiali nel minor tempo e con il minor dispendio possibile e di una qualità uniforme, certo inferiore.
Questo poi avviene per esempio quando si fa la tosatura degli animali. Oggi le tosature in alcune produzioni spesso finiscono con il ferimento dell’animale e poi la morte. Tanto, se ne fa carne.
Vi sono delle eccezioni. Per esempio, la produzione di un pullover di Loro Piana, che costa 500, 1000, 1500 euro, nei vasti pascoli dell’Australia, dove allevano le pecore in libertà. Pecore felici, che vengono tosate bene. Però sono produzioni di nicchia.
C’erano anche in precedenza produzioni così diverse?
Questo divario fra le produzioni di massa e quelle di elite è rimasto. Era così anche nel Trecento, ma la produzione povera, di cui si veste Francesco e si veste Chiara, era comunque di un materiale molto pregiato rispetto a quello che oggi viene usato nella produzione per la massa.
Oggi noi siamo al di sotto del lebbrosario. Quello che usiamo noi è una specie di girone dantesco. Le fibre che usiamo noi sono fibre rigenerate. I panni vecchi vengono messi in dei bagni acidi, vengono sciolti, poi vengono fusi ed estrusi insieme a una fibra sintetica che li tiene insieme, poi fai otto lavaggi e il capo lo butti via. Niente di simile è accaduto mai nella storia.
C’è ancora curiosità per il restauro?
Le botteghe per il restauro ci sono sempre state. Come formazione specifica nasce con Brandi direttore dell’istituendo ICR di Roma dal ’39 al ’59, poi nel ’63 esce il suo Teoria del Restauro, caposaldo di questa disciplina. Ma anche con la fusione a Firenze nel 1975 con la legge istitutiva del Ministero per i beni culturali e ambientali, di tutti i laboratori di restauro fiorentini compreso l’antico Opificio delle pietre dure, da cui la prestigiosa scuola ed istituto di Firenze prenderà il nome.
Ci vorrebbe tempo per citare tutto e tutti gli attori di questa purtroppo brevissima e splendida storia. Comunque, oggi il restauro è una specializzazione in gravissime difficoltà come tutto ciò che riguarda l’arte, Ministero dei beni culturali in testa.
In Italia, paradossale.
Tutto ciò che riguarda l’umanesimo oggi è sotto attacco, in crisi…
L’arte è passata da una dimensione poetico-mistica fatta di studio – archeologico, storico artistico, archivistico, scientifico come anche di conservazione e restauro – a una dimensione di spettacolarizzazione, di evento. L’evento non ha bisogno di tutti questi approfondimenti anzi, gli sono di intralcio perché indirizzano verso la Storia, la conoscenza, la consapevolezza e questo comporta che io non posso far dire all’evento, allo spettacolo, alle opere che uso ciò che voglio.
L’arte non può mai essere strumentale. Quando lo diventa è arte di regime se pur sempre anche in queste anguste circostanze sia riuscita a parlare.
Questo è accaduto anche nel mondo delle opere d’arte in Italia. A fronte di un cambiamento morfologico delle strutture amministrative statali che si occupavano del patrimonio crescendo a dismisura. La gestione del patrimonio è stata data a società inizialmente partecipate, poi a società private che si occupano della tutela, conservazione e didattica del patrimonio culturale. I burocrati da un lato le opere dall’altro. Orfane. Lo smantellamento dello stato, del patrimonio e quindi dell’identità di un popolo.
Come sono i costi di restauro del tessuto?
Il restauro è un costo enorme. Il costo a volte è paritetico al costo con cui l’opera è stata eseguita.
Quindi, se si considera che costruire il parato Vanzi, di cui parlavo poc’anzi, poteva costare più o meno come affrescare la cappella di San Brizio nella cattedrale di Orvieto, si comprende che un’arte minore come quella tessile aveva dei costi maggiori dell’architettura. Se si trasformano questi costi in ore lavoro, capirete cosa comporta restaurare un’opera d’arte. La conoscenza che deriva dall’atto del restauro parla di un umanesimo che non interessa. O forse nuoce?
Tutto sembra collegato a un modo diverso di vivere il tempo.
Il tempo è diventato un tempo incantato, un eterno oggi del singolo individuo. L’emergenza ne è una manifestazione paradigmatica. Questo a mio avviso è uno dei fenomeni derivanti da un processo di individualizzazione accorso in lungo lasso temporale e che forse oggi ha subito una forte accelerazione. Di per sé sarebbe un dato positivo in quanto, in un certo qual modo, si svincola la persona da regole che prima venivano date dalla religione, dalla nazione, dalla casta, dalle categoria sociale, dalla famiglia ecc. Dall’altra parte, la percezione del tempo nell’individualizzazione del singolo, ha un valore in quanto tempo mio, come a dire “dopo di me il diluvio”. Quindi tu, quando imposti un lavoro, non lo imposti per le generazioni future. Il processo di individualizzazione, che a mio avviso è anche un processo di consapevolezza di se, non ha ancora raggiunto una dimensione del sociale. E rischia, decontestualizzato dall’umanesimo, di trasformare l’individualizzazione in meccanizzazione, con un uomo e un’arte oggetto più che soggetto.
Per me è stato un grande insegnamento lavorare per trent’anni in un convento di clausura, dove il tempo individuale non esisteva. Le opere erano sempre state lì e ci sarebbero state anche dopo, quindi se non si è fatto si farà, un po’ anche come per Siena e le sue tradizioni, lo faranno altri dopo di noi. Una esperienza che oltre a collegare l’arte all’uomo lo collega a Dio, al buono, al bello, al vero.
Anche se i tempi forse non lo consentono, spero di poter dare un corpo ai lavori e agli studi svolti, vorrei finire le ricerche sulle reliquie di San Francesco e Santa Chiara, e poi pubblicare, non solo su riviste scientifiche, per lasciare questi anni di studio e conoscenze ai posteri, al futuro.
E chissà a volte il caso…