La donna aprì la finestra e si lasciò accarezzare dall’aria. Guardò il cielo terso. Poi con un gesto deciso tirò la tenda e la penombra si impossessò delle pareti, del letto, della scrivania, della sedia.
Si metterà poi a espletare il suo rito quotidiano, J., la stesura di una lettera a un uomo molto amato, tenuto lontano, in un luogo che non è dato sapere.
Rimane fuori dai contorni la ragione del volersi separati pur in condizione di amore vertiginoso, potente. Soprattutto rimane per molte pagine inspiegato cosa sia successo tra i due o attorno a loro, ma se ne percepisce sottotraccia lungo tutto il romanzo la portata, enorme.
Lei, in fuga, scrive lettere come grani di un rosario di cui non si vede la fine, ammesso che arrivi.
Non è detto che queste lettere, che pur partendo da luoghi diversi riportano la sigla di un unico indirizzo, giungano a destinazione, e se sì se verranno comprese da chi si firma Y. , che a sua volta cerca di alimentare con fede tenera, assoluta, la loro storia interrotta da un allontanamento deciso solo da lei: non perché si sia affievolita la fiamma, ma perché a un certo punto della vita ci sono somme che esigono di essere tirate, lucidamente.
In cerca di una pace a contrastare la rabbia e il dolore che la divorano (la causa primaria si vedrà è un lutto familiare che scatena reazioni scomposte, rielaborazioni del tutto personali, ma che comunque non giustifica appieno il punto di rottura di un intero mondo), J. nega a se stessa perfino il proprio nome, si annulla per buona parte del viaggio dietro questa iniziale che non è la sua.
Così come decide di chiamare il compagno Y., una lettera che nulla c’entra con il nome che verremo a sapere solo quando saremo vicini a un finale che tutto sconvolge, sorprendente, inaspettato.
Quello narrato da Garlaschelli in Lettere dall’orlo del mondo, romanzo già pubblicato nel 2012 e che ora, rivisto, viene riproposto per una scelta felice da Arkadia Edizioni nella collana Sidekar è un carteggio doloroso, intimo e nascosto, per cui l’autrice trova un linguaggio trattenuto, piano, in voluto contrasto con un dolore feroce da elaborare.
La protagonista, che in realtà risponde al nome di Miranda, scrive perché ha un nuovo presente da narrare: riferisce di incontri con persone buttate ai margini – chi gestisce una piccola pensione di paese, chi una bottega-mondo aperta per cambiare vita – e delle corrispondenze inattese con figure di un paesaggio nuovo, appena conosciuto.
Lei descrive il viaggio, il suo uomo si aggrappa fermo alla selezione dei ricordi, a una speranza di rinsaldare il loro rapporto, dandogli il nuovo inizio che merita.
Lei, si intuisce, si protegge dai suoi abissi come può, ottundendo la mente, riempiendola di immagini, interrogandosi:
Caro Y.,
Dimmi, se lo sai, come ci si salva dall’assalto dei ricordi? Come ci si salva dalla costruzione del dolore che noi stessi ci dedichiamo? Altari perfetti di immagini e odori e sapori che ci rimandano nei vicoli e nelle piazze e nei prati dove siamo stati felici e dove ritorniamo sapendo che non lo saremo più. E quando abbiamo ricercato l’esatto dolore, la malinconia che graffia, cerchiamo di allontanarci per percorrere strade nuove, consapevoli che sarà’ tutto diverso. Per sempre.
Dimmi, se lo sai, come ci si salva da se stessi, dall’assedio continuo, dalla tregua che non ci concediamo, dall’egoismo che ci inchioda convinti come siamo che il nostro dolore sia unico e irripetibile e forse e così, se non fosse che ce ne sono miliardi di dolori unici e irripetibili.
Domanda aiuto anche alle letture fatte, J., ma Bradbury, Céline, Virginia Woolf, le vengono in soccorso solo in parte: alle volte non salva l’aver tanto letto. Certo non fornisce tutte le risposte che Y, ovvero Edoardo, scopriremo, attende, sospeso in uno stato di protezione salvifica, una presenza quasi epica che si fa rarefatta, non priva di poesia, rispettosa degli spazi inviolabili di Miranda, che da lontano veglia mai abbandonandole la mano.
Barbara Garlaschelli crea un sospeso perfetto, di tempo, di luoghi e situazioni.
Con maestria svela, soprattutto trattiene il narrato. Mantiene alta l’attenzione senza cedimenti, né autocompiacimenti per cento pagine, come in un giallo psicologico di ottima fattura non fosse chi qui il materiale è di sentimenti, incandescente.
Consegna due voci intime, un mondo tutto loro, un riconoscersi in poche parole negli accenni minimi: il lettore, pur coinvolto, si sente in dovere di starserne sulla soglia, sul proprio orlo del mondo, a non disturbare.
Fino al finale, inimmaginabile, sconvolgente, aperto e conchiuso allo stesso tempo. Di più non si può davvero, né si vuole, qui dire.
Anna Vallerugo