Il Cristo elettrico di Lello Voce è un romanzo circolare, una ruota che parte dall’ultima lettera del protagonista Enrico alla madre fino alla prima missiva che svela l’arcano del tutto e ci fa idealmente ripercorrere la storia dall’inizio. Il libro racconta innanzitutto l’immobilità del tempo ma anche la volontà di potenza che diventa a sua volta desiderio di impotenza, incapacità di uscire dalla sfera perfetta della cosa materna. C’è anche la denuncia che attraverso l’ironia e il sarcasmo, e a volte la comicità, riesce a traghettarci nel mondo infame delle carceri italiane. Il Cristo elettrico amalgama alto e basso, scarafaggi e esseri umani. Slang, lingue straniere, citazioni colte. Il cerchio che unisce come un uroboro l’inizio e la fine è questa immobilità temporale che è anche rizomatica di avventure e godimento. La parola è performance. Mangiata e risputata, capovolta, travolge la carnalità di un cosmo sempre affiorante dal buco della pelle. Quei buchi da tossico, quelle bocche e quegli ani, quelle vagine, quei pertugi sono proprio black hole attorno ai quali gravita, stazionaria, perenne, l’insoddisfatta condizione umana sempre a un passo dall’essere risucchiata dal fondo nero della disperazione e mai del tutto digerita, spaghettificata, elettrica, in perenne tensione vitale. Questo romanzo ha uno stile sconvolgente, un po’ Rabelais, un po’ Burroughs, un po’ Pasolini, un po’ Busi. Un po’. Del tutto Lello Voce. Scrittura estremamente desiderante, reale. Impossibile.
Gianluca Garrapa
#
«Questo scartafaccio che avete improvvidamente tra le mani è il volume falsamente terzo della mia zoppicante trilogia romanzesca, iniziata con Eroina e proseguita con Cucarachas»: si apre così, e si chiude, il romanzo, con una piccola prefazione che è una postfazione del 2014. Prima di chiederti di raccontarci la temporalità della tua scrittura, raccontaci come nasce Il Cristo elettrico.
L’idea di scrivere un romanzo è nata all’inizio degli anni 90. Nel 1994 quest’idea aveva ormai preso una sua concretezza e, sostanzialmente, prevedeva un ‘intreccio’ simile a quello che sarebbe poi stato quello del Cristo: una parte narrativa, che copre lo spazio di una sola giornata del protagonista e che poi si intitolerà Eroina, e un’altra composta dalle lettere che il medesimo protagonista, Enrico, scrive dalla galera in cui è finito al termine della precedente godardiana (A bout de souffle) giornata, che diventerà il mio secondo romanzo, Cucarachas. Presentai, quindi, un capitolo a RicercaRe, a Reggio Emilia. Erano gli anni del Gruppo ’93 e della nascita dei cosiddetti ‘cannibali’. Severino Cesari, dell’Einaudi, ne fu colpito e con grande entusiasmo mi chiese di mandargli il testo in vista di una sua pubblicazione nella collana da lui diretta con Paolo Repetti, Stile libero. Lo feci, inviai qualche capitolo narrativo, una sintesi e iniziò l’attesa, una lunga attesa. Nel frattempo aveva iniziato a leggere il dattiloscritto anche Nanni Balestrini, che lo apprezzò molto, ma colse immediatamente la differenza tra le due parti (il racconto vero e proprio e le lettere dal carcere) e mi consigliò di puntare solo sulla parte di narrazione vera e propria e di darmi più tempo per riflettere sulla struttura generale e sullo ‘stile’ delle lettere dal carcere.
Aveva ragione, dunque decisi che, nel caso, avrei dato a Cesari solo la parte di narrazione. Ma intanto da Einaudi nessuno si faceva vivo. Provai a contattare Cesari, ma tutto rimase nella nebbia con ragioni che – lo avrei imparato nel tempo – avevano un significato sottilmente diverso dalla lettera di quanto mi si comunicava: ho bisogno ancora di un po’ di tempo, siamo pieni di lavoro, mi faccio vivo presto e via così. Alla fine scrissi una missiva piuttosto rabbiosa e infastidita (era, credo, fine 1996, erano passati circa due anni dalla proposta di Cesari) e così infine ebbi la risposta – piuttosto strabiliante, devo dire, ma definitiva – da parte di Severino: il libro era ottimo, la lingua “eccezionale”, ma non se ne faceva niente. Perché? Nemmeno lui sapeva dirmelo, sapeva solo che non se la sentiva… Da qualche parte devo ancora avere le due lettere…
Per me fu un duro colpo. Mi aiutò un furente Balestrini che lo inviò ad Elisabetta Sgarbi, di Bompiani, che lo apprezzò e lo passò immediatamente all’editor di narrativa, che però si oppose strenuamente: il romanzo non le piaceva e dunque non se ne fece nulla. Era ormai il 1997, più di 3 anni erano passati e io decisi così di rivolgermi a Transeuropa, una casa editrice piccola, ma prestigiosa, diretta allora da Massimo Canalini che infine pubblicò nel 1998 Eroina, cioè la parte narrativa del Cristo. Il libro fece appena in tempo a ricevere alcune ottime recensioni, che, nel 1998 stesso, Transeuropa fu costretta a chiudere battenti e così Eroina sparì anche da quei pochi scaffali di libreria su cui, con fatica, era riuscito ad arrivare. Nel frattempo io avevo continuato a lavorare sulle Lettere e l’avevo fatto, sempre con l’aiuto di Balestrini, trasformando in una performance la mia stesura di quello che era, a tutti gli effetti, il mio secondo romanzo.
Quando scrivevo mi collegavo al sito di RAISatZoom, diretto da Balestrini stesso e chi navigava sul sito, attraverso una webcam, poteva vedere me che scrivevo, ma, soprattutto, vedeva in diretta il desktop del mio computer, con il flusso della scrittura, dei ripensamenti, delle correzioni. La cosa ebbe il suo modesto risalto, sin sulle pagine del Corsera e, a lavoro finito, Cucarachas, così avevo deciso di intitolare la raccolta delle lettere dal carcere, fu pubblicato, nel 2001, da DeriveApprodi, nella collana di prosa, diretta da Luigi Bernardi e Alessandra Gambetti.
Anche in questo caso arrivò qualche nuova recensione, da firme prestigiose, ma…Ma la collana era fortemente eccentrica rispetto al target dell’editore, era il 2001, la Torri venivano giù, io ero travolto dal mio lavoro poetico, che in quegli anni iniziava a essere spartito con i musicisti (Fresu, Nemola, Salis) e i videoartisti (Verde), stavo tentando di lanciare in Italia il Poetry slam, curavo festival, eventi, rassegne, indagavo sull’assassinio di Carlo Giuliani, e così anche Cucarachas finì tra le rese, con pochissima gloria pubblica.
Intorno al 2004 mi tornò la voglia, però, di rimettere mano al progetto originale, di fondere cioè i due romanzi per farne uno solo, intrecciandoli.
Iniziai dunque a lavorarci sopra di nuovo, a fare editing, a variare e aggiustare perché l’intreccio fosse solido e stilisticamente ‘sensato’ e infine nel 2006 uscì da un piccolo editore coraggioso, NOReply di Leonardo Pelo, il Cristo elettrico.
Ma nel 2006 l’onda, anzi lo tsunami di nuovi narratori italiani era ormai in atto, c’era un caso letterario al mese, se non alla settimana, alcuni veri, altri, moltissimi, totalmente inventati e così, chi volete che desse attenzione al testo di un poeta strampalato uscito con una piccola casa editrice?
Le solite (poche) recensioni prestigiose di quei pochi a cui eravamo riusciti a spedirlo e morta là.
Passarono così altri anni e nel 2014 Tiziano Scarpa e Roberto Ferrucci, che dirigevano una collana di e-book dedicata a romanzi ‘dimenticati’ per Terra Ferma, piccolissimo editore veneto, mi chiesero di partecipare all’avventura e, dopo un altro anno di ‘lima’ per renderlo friendly al nuovo formato, il Cristo si digitalizzò.
Nel 2020 – stimolato da Giulio Milani – che aveva fatto risorgere la vecchia Transeuropa, nacque l’idea di chiudere davvero il cerchio di un romanzo ‘circolare’ e così il Cristo è tornato sul luogo del delitto, non prima però di aver subito una nuova revisione, in alcuni casi strutturalmente non di poco momento, e questo è il Cristo che hai letto tu.
«Dite che ci private dello spazio e invece è il tempo quello che ci fregate, per illudervi di averlo tutto voi, per baloccarvi con l’idea che voi siete liberi, che avete spazio e tempo per vivere e che ve li meritate»: nel cosmo de Il Cristo Elettrico succedono tante esistenze, le vite dentro e fuori il carcere si disintegrano e si ricompongono, strati sociali e mix di culture e lingue, una babele in cui tu riesci a organizzare un disordine ordinato, usi la libertà per trasgredirne le regole: la tua scrittura pare una performance sospesa tra tecnica e improvvisazione, o mi sbaglio?
Credo che tu colga nel segno: lo ‘stile’ è quello di una descrizione ordinata del caos, in cui poi sia evidente al lettore che la trama, il racconto, che pure esistono e sono importantissimi – anche se non credo affatto che il nucleo essenziale di un romanzo stia nella sua ‘storia’, né nei suoi ‘personaggi’ – non sono la realtà, ma solo un modo come un altro di mettere ordine nel suo disordine, nell’entropia del mondo reale.
La lingua, che certo è spiccatamente espressionista, guarda a Gadda e a Céline per capirci, sta lì a dire al lettore che l’unica verità di un romanzo è la sua forma, la sua lingua. Insomma la sua menzogna.
Concordo con Kis: solo un homo poeticus può scrivere un romanzo, non un homo politicus, con buona pace del politically correct di ogni genere.
Anzi, da questo punto di vista, il Cristo è scorrettissimo, anche se per scandalizzarsene occorrerebbe leggerlo.
Una lingua così è – in sé – dinamica, corre sulla pagina, si contorce, mostra le sue pieghe (Deleuze), tende a ‘deterritorializzarsi’. È dunque evidentemente performativa.
Oltre a questo, però, io credo con Lotman che ogni arte sia, basicamente, ‘performativa’, cioè che si legittimi e si identifichi in quanto prodotto artistico sempre in rapporto al contesto in cui la si esegue (o la si fruisce): uno smartphone messo in cornice non è più uno smartphone, ma un messaggio formale, estetico, è, o prova ad essere, arte.
Anche in questo senso il Cristo, come tutte le cose che faccio è performativo. L’esperimento tentato con RAISatZoom aveva precisamente questo scopo, dimostrare che anche un romanzo ha un aspetto ‘performativo’: nella sua stesura, così come nella sua successiva fruizione da parte del lettore, nel suo essere personalmente ‘interpretato’.
«Con la sinistra reggo il Rerum Vulgarium Fragmenta di zio Francesco, da cui leggo sonetti e canzoni, seste rime e caudati, a raffica. Fino all’estasi»: i riferimenti letterari, musicali, filosofici e artistici non si contano, ma nulla di nozionistico, è la pelle stessa di Enrico che è bucata dal significante del sapere, che vive grazie al linguaggio dei poeti.
Che rapporto hai con la cultura dei libri e con quella, per così dire, della strada?
Penso che siano la stessa cosa, nel senso che l’una mi sarebbe incomprensibile senza l’altra.
Forse dipende da come ho vissuto la mia vita: sono stato un giovane storico, poi un giovane imprenditore, poi un operaio, un fuori corso, un poeta, un narratore, un performer, un insegnante. E, certo: un tossico, uno dei peggiori. Un vero toboga, direi.
C’è un’evidente circolazione di senso (di simboli, di storie, di personaggi, di idee) che passa continuamente dall’una all’altra dimensione, trasformando tutto ciò che trascina nella sua corrente.
Oggi poi, nell’epoca in cui il Pop (che non è sinonimo di ‘popolare’) è diventato la cultura delle élite, la faccenda è ancora più complessa e meriterebbe riflessioni ben più lunghe e approfondite.
Diciamo che il Cristo è il tentativo di mettere in atto, narrativamente, le conclusioni antropologiche di Girard, che è il vero nume tutelare del romanzo.
Nel travaso dall’una all’altra ‘cultura’ i meccanismi mimetici che fanno esplodere la violenza, divengono, a mio parere, evidentissimi.
Tutte le comunità si reggono su un linciaggio condiviso. E ogni ‘livello’ di quelle società lo legittima con un ‘discorso’ differente, per complessità e scopo, tanto la cultura popolare, quanto l’high-brow. Aprite la finestra, guardate cosa sta succedendo oggi con la pandemia e ne avrete la conferma: tanto per quanto concerne la ricerca del ‘capro’, che per quanto riguarda la mescolanza, in questo caso esiziale, tra cultura alta e cultura bassa. Da entrambe le parti dello schieramento, sia chiaro.
«Ne avevo anche discusso con Teo, il mio scarafaggio e ibero-parlante amico di cui ti dicevo nelle precedenti e mai inviate mie»: il rapporto che la tua scrittura instaura col mondo è di tipo rizomatico, e nulla esclude. Il realismo psicotico che pervade il romanzo traccia labili confini tra dentro e fuori, tra limiti e sovversioni.
In questa atmosfera ologrammatica, come nascono i tuoi personaggi e questa spassosa quanto geniale presenza dello scarafaggio Teo?
I miei personaggi, con l’eccezione di Enrico, il protagonista, e di Maria, la sua ‘spalla’, sono sostanzialmente delle maschere, delle caricature espressioniste ed estreme. Il capo degli spacciatori camorristi, che si chiama, con grande scorrettezza ‘il Giudìo’, come Franco, il guru, e via così.
E non sono neanche, queste ultime, pirandellianamente maschere nude. Sono maschere e basta. Bandierine esistenziali per tracciare una rotta nel caos della vita (quella reale e quella romanzata, che esperisce il lettore). Perché è fondamentalmente di generalizzazioni che viviamo, tranne in pochissimi casi. Perché non facciamo altro che tentare di ‘generalizzarci’, per renderci più graditi, più facili per gli altri. Ma le generalizzazioni possono essere ribaltate. Così ho creato le mie ‘maschere’.
Teo, invece, è una ‘citazione’. O, meglio: è una rispettosa e umile ‘diminutio’ nei confronti di Kafka.
È la presa d’atto che al nostro tempo è, veramente, definitivamente, preclusa la dimensione del tragico.
Viviamo in una farsa, i più attenti tra noi con la certezza che questa farsa finirà assai peggio di qualsiasi tragedia, senza per questo acquisirne la dignità.
«Cazzo! Questa è una metafora della roba. Non è roba! Glielo aveva urlato sul muso al Giudìo. Cinquanta carte»: la metafora è di casa nel tuo romanzo, e anche la poesia, la visione ulteriore delle cose che capitano, delle esistenze che accadono: tu sei uno dei pionieri dello spoken word e della spoken music: che rapporto c’è tra la scrittura in prosa, spesso musicale e evocativa, e la tua pratica di poetico-musicale?
La bocca è la stessa, anche se soffia su ance diverse…
«Per la prima volta all’Enrico venne in mente che forse il tempo non passa, che, in realtà, tutto è immobile, perfettamente fermo, e che siamo noi tutti che ci camminiamo attraverso e sappiamo andare solo avanti, […] fino in fondo alla rete, banchi e banchi di sardelle terrorizzate verso il culo del sacco, fino allo strozzo della rete. E non c’è varco nelle maglie, né ponte sul precipizio.» Il tempo. Raccontaci il tempo de Il Cristo elettrico. Mi sembra sia il filo rosso che collega e imbastisce tutta la sostanza dello spazio letterario. Essere non è tempo?
La poesia è un’arte che appartiene al tempo e non allo spazio. Si esegue.
Il romanzo, invece, appartiene prima di tutto allo spazio immobile, sempre uguale a sé stesso, della pagina di un libro, ma spesso si dimentica che, anche in questo caso, il principale evento narrativo a cui si assiste è proprio lo scorrere del tempo.
Allora bisogna passare dall’esperienza del tempo, dal nostro agire in esso, alla riflessione sul tempo, cui lo scritto offre un’occasione preziosa.
Il romanzo è lo spazio in cui il narratore mette in atto la sua riflessione sullo scorrere del tempo e su quei suoi buchi neri, su quelle ‘catastrofi’, che chiamiamo eventi.
Il tempo passa, si dice, e se invece a passare fossimo noi, se immaginassimo che a passare fosse il tempo solo per distrarci da questa nostra marcia verso l’abisso? Guardando dal finestrino del treno, l’impressione può essere che a muoversi sia il paesaggio e non noi, nel treno.
Ma non è solo una questione di Gestalt, di percezione, è una cosa fondamentale, che dovrebbe essere centrale nell’immaginare una narrazione che altro non è, in fondo, che una riflessione sullo scorrere del tempo.
E oltre al tempo del romanzo c’è il tempo del lettore, che entra ed esce, liberamente, da quello della narrazione.
Il cambio di statuto temporale è una delle caratteristiche performative più spiccate, in qualsiasi narrazione, a mio parere. E si replica ogni qualvolta l’intreccio tradisce la trama.
Quindi, infine, a mio modo di vedere, nell’atto di lettura, come nella vita, essere è essere in più tempi, a volte persino sincronicamente. Muoversi tra loro, sceglierli, esperirli, abbandonarli o limitarsi a ricordarli. A farne memoria. Che è il compito del romanzo, anche quando usa i versi declinati al presente.
Poi c’è il tempo che – persino nella finzione letteraria – scorre in assenza di racconto. Cosa sta facendo Renzo, mentre Don Rodrigo architetta il rapimento di Lucia? E come lo sta facendo?
È un problema che ossessionò Gadda, provate a rileggere, in questa chiave L’incendio di Via Keplero, per esempio. Il problema della contemporaneità dell’accadere, lo definirei.
Un romanzo, a mio parere, è sempre narrare una storia perché si dimentichino tutte le altre possibili storie che non vengono narrate. È un arbitrio. Come tutte le opere d’arte.
Un romanzo che si morde la coda, come il mio, almeno ammette di essere solo un perimetro, una circonferenza, e non un cerchio, o una sfera.
L’arbitrio più decisivo, insomma, è quello che l’autore commette nei confronti dello scorrere del tempo, di tutti i tempi rispetto ai quali decide di essere reticente.
Ma senza menzogna, non c’è arte.