“Mi aveva mostrato le sue cicatrici, e in cambio mi aveva permesso di fingere che io non ne avessi alcuna”
Circe. La maga. Figlia del Titano Elios e della ninfa Perseide. La semi-divinità omerica raccontata – forse più per abitudine che per necessità – come una strega ingannatrice, ricordata nella cultura popolare come una creatura collerica il cui diletto principale era quello di trasformare in maiali gli sfortunati marinai che approdavano su Eea.
Madeline Miller prende questo mito e scava. Scava attingendo a sterminate fonti omeriche e trasforma tutti gli stereotipi su Circe in una densa e drammatica moltitudine di cicatrici che si intrecciano tra loro a formare una tela magnetica.
Non uso a caso la parola tela perché il romanzo della Miller è anche e soprattutto questo. Una tela millenaria – forse è per questo che Dedalo regala a Circe proprio un telaio? Per permetterle di mettere ordine nella sua vita da esiliata tessendo le fila di un nuovo presente e di possibile futuro? –, un ordito di ingenuità, di speranze, di occasioni perdute, di comprensione, di malinconie, di amori e di redenzione.
Così la Miller ci racconta l’ingenuità di una giovane Circe, figlia sfortunata con “voce da mortale” del collerico, algido e anaffettivo Elios. Una giovane immortale che cerca disperatamente il suo posto alla corte dei grandi Titani ma che non lo trova. Una giovane che viene sfiorata dall’enormità di Prometeo, il Titano ribelle, e che resta affascinata dalla punzione che gli Olimpi infliggono al portatore del fuoco. Una giovane che si ribella sfidando le autorità e poi reclamando di averlo fatto nell’urlo disperato di chi vuole farsi sentire, di chi vuole far ascoltare la propria voce. Anche se “mortale”, anche se sgraziata. Una metafora dell’adolscenza quella che ci descrive l’autrice. Una metafora dell’incomprensione. Del dolore di un’aspettativa, quella dei genitori, che a volte sembra impossibile da soddisfare.
E poi le speranze. La speranza di amori sbagliati, di vendetta, la speranza di riuscire in qualche modo a sentirsi speciale. Speranze che si infrangono insieme alle occasioni perdute e che costringono – spingono – Circe al suo esilio sull’isola di Eea. Una casa prigione, Eea. Una gabbia nemmeno troppo dorata da cui fuggire è impossibile ma dalla cui prigionia Circe sarà sollevata per un breve periodo nell’ennesimo tentativo di soggiogarla, di gettare sale sulle sue cicatrici nascoste.
È qui che la Miller lascia intravedere i fili che tengono insieme la vita di Circe e che al tempo stesso reggono e animano la storia che vuole raccontarci. È qui che l’autrice ci fa la sua confidenza: il telaio di Dedalo tanto caro a Circe è lo stesso strumento che la Miller sta usando per raccontarci la storia della maga. Una telaio sofisticato, un telaio capace di cambiare i luoghi in funzione delle persone che li abitano, capace di farci intuire la struttura di una storia per poi cambiarla. Capace di trasformare un susseguirsi di miti e di intrecci famigliari in qualcosa di completamente diverso: la Miller aggiunge ai tessuti del suo telaio l’incadescente stoffa dell’amore.
Un amore che Circe non ha mai avuto ma che in qualche modo ha sempre cercato. Ovunque. Assetata. Affamata di qualcosa che non conosceva, di qualcosa che nessuno le aveva mai mostrato. Non certo i Titani, innamorati di loro stessi, cinici e incapaci di comprendere davvero le anime mortali. Forse persino spaventati dalla libertà della morte. E di sicuro non gli Olimpi, arroganti e assetati della mortalità degli umani.
L’amore. L’amore trasforma tutto. Eea non sembra più la stessa quando l’amore di madre approda nella vita di Circe. Leggendo si ha l’impressione di trovarci in un altrove mai descritto fino a quel momento e questo è uno degli strumenti più potenti che la Miller mette in campo: la capacità di trasfigurare – la stessa capacità che Circe padroneggia, quella della metamorfosi – e di farlo in modo lento ma efficace. Eea cambia. I luoghi cambiano. Perché cambia Circe e perché il colore predominante della trama che sta tessendo, quella della sua vita, diventa amore.
E poi c’è la redenzione. Una peso che Circe ha sempre portato su di sé da quel fatale incontro con Prometo. Un seme piantato che aspettava solo di germogliare. Il desiderio di mostrare le proprie cicatrici per fare in modo che queste, finalmente, potessero sanarsi. Circe cerca la redenzione perché l’amore le mostra la bellezza di essere ciò che si é. Di volere non per sé ma per gli altri.
Perché l’amore la porta da una parte a rivelarsi, dall’altra ad accettare ciò che gli Olimpi e i Titani sono incapaci persino di immaginare: esiste la libertà degli uomini. Ed è un bene prezioso. Un bene raro. Un bene che va rispettato. Ed esiste la morte.
“Alcune camminavano mano nella mano con quelli che avevano amato in vita; altre aspettavano, sicure che un giorno i loro cari le avrebbero raggiunte. E per coloro che non avevano amato, le cui vite erano state colme di dolore e di orrore, c’erano le nere acque del Lete, doveera possibile abbeverarsi e dimenticare. Una consolazione.”
Non una condanna, ma una dono. La consolazione finale a cui tutti gli uomini – e non solo – possono e debbono ambire. La fine del viaggio. L’ultimo filo da tessere.
Maico Morellini
Madeline Miller
Circe
Marsilio
11,40 euro
416 pagine