StreetBook Magazine è una rivista letteraria “audace” nelle scelte grafiche e nei racconti selezionati e che invita a vivere la strada, le città, il mondo uscendo dai soliti schemi restrittivi di un social network (anche il nome nasce come contrapposizione a Facebook)
A queste domande ha risposto Simone Piccinni.
Cosa vi ha spinto a creare una rivista letteraria? E quanto tempo fa è successo?
StreetBook Magazine nasce nel 2014 come naturale evoluzione di un percorso, piuttosto tortuoso, che avevamo avviato l’anno prima io, Simone Piccinni, insieme a Niccolò D’Innocenti e Andrea Federigi, due miei colleghi universitari del corso di Media & Giornalismo dell’Università di Firenze.
Eravamo tutti e tre disgustati dall’ambito dei nostri studi e decisi a non intraprendere la carriera giornalistica pura, troppo condizionata e non autentica, ma al contempo accomunati dalla passione per la lettura e la scrittura. Proposi loro di fondare un collettivo di scrittura creativa, con l’intenzione di creare in breve tempo una piccola casa editrice indipendente. Eravamo un po’ ingenui a pensarlo: non avevamo assolutamente le competenze necessarie per un progetto del genere al tempo, quindi per metterci alla prova iniziammo con la creazione un blog collettivo di narrativa di viaggio, altra grande passione di tutti e tre.
Il blog si chiamava Vai a quel paese – Go Face Yourself e conteneva racconti di viaggio che, nelle nostre intenzioni, approfondissero l’aspetto di crescita personale e sociale derivante dal confronto con Paesi e culture diverse, narrate con un tono scanzonato e leggero. Fin da subito abbiamo cercato di aprirci alle collaborazioni esterne, evitando un approccio troppo autoreferenziale e chiuso.
L’iniziativa ottenne un buon seguito, sia in termini di collaboratori che di pubblico. Ma il merito maggiore di quell’esperienza fu che avvicinò alla nostra realtà un’altra categoria creativa: quella degli artisti visuali. Erano infatti necessarie illustrazioni e foto che corredassero gli articoli, quindi iniziammo ad accogliere e a confrontarci con quest’altra tipologia di collaboratori.
Dopo un po’ però l’argomento del viaggio iniziò a starci stretto, limitando gli spunti che continuavamo ad avere anche grazie al confronto con gli artisti visuali che partecipavano alle nostre riunioni di redazione. Nacque lì l’idea di creare una rivista che legasse la narrativa breve inedita con una veste grafica impattante e fresca.
Una delle finalità emerse da Vai a quel paese era infatti quella di rivolgerci a un pubblico giovane in modo da avvicinarlo alla lettura e alla scrittura in un’ottica di crescita personale e di sviluppo di un approccio critico alla realtà circostante. Da lì in poi passarono nove mesi, una vera e propria gestazione, di studio sul formato, cambi di direzione e incertezze varie, prima del lancio del primo numero effettivo, che stampammo in 500 copie autofinanziate e che distribuimmo in vari locali e università di Firenze.
I primi tre numeri non furono registrati in tribunale e vennero rilasciati in forma totalmente clandestina, crescendo di numero in numero fino a 2000 copie. La richiesta era molto alta e, a livello fiorentino, attirò molte attenzioni: anche La Repubblica, oltre a diverse altre testate, ci dedicò un articolo di approfondimento.
Da lì capimmo, grazie anche ai pareri di alcuni nostri amici avvocati, che la clandestinità non sarebbe potuta durare, anche perché le sanzioni per la stampa clandestina non sono proprio leggerissime, in Italia. Quindi dal terzo numero azzerammo tutto e ripartimmo dal numero 0, con una veste grafica rivista e con nuovi contenuti.
Devo dire che siamo molto fieri di questa evoluzione editoriale “piratesca” che ci ha permesso di maturare molto, sia come persone che come aspiranti professionisti del settore. Infatti anche il lato economico iniziava ad essere pressante, dato che stavamo spolpando i nostri risparmi per mandare in stampa i numeri con l’autotassazione, costringendoci ad approcciarci in maniera più adulta alla stampa: la soluzione che trovammo fu quella di aprirci ad alcuni piccoli sponsor locali, e anche lì ci furono un po’ di dubbi e problemi.
Vista la nostra veste grafica molto curata non volevamo “macchiare” il nostro prodotto con le solite marchette pubblicitarie antiestetiche, quindi approcciammo le varie pagine pubblicitarie con un taglio artistico: per ogni sponsor i nostri artisti realizzavano dei veri e propri contenuti visuali di pregio che si confondessero armonicamente al resto della rivista, altro aspetto che piacque da subito agli inserzionisti.
Questo portò nel giro di qualche numero a rendere sostenibile la stampa della rivista, cosa non da poco per una piccola realtà autocostruita come la nostra. Il tutto ovviamente fino all’inizio della pandemia, che ha sparigliato le carte e ci ha messo in seria difficoltà: siamo stati costretti dall’assenza di sponsor (con i locali chiusi sarebbe stato impensabile continuare con i contributi da parte loro) a ridurre drasticamente la tiratura e a spedire le riviste solo ai tesserati dell’associazione Three Faces, costituita nel 2014 per creare un soggetto che legalmente potesse intestarsi la rivista in qualità di editore.
Ora, dal numero di giugno, siamo tornati con una distribuzione gratuita in scala ridotta, grazie all’aiuto di alcuni nostri vecchi sponsor. Stiamo pian piano rivedendo la luce, insomma, anche se il percorso è abbastanza lungo e chissà dove ci porterà come rivista.
Prova a definire la vostra rivista in poche parole.
StreetBook Magazine vuole essere la rappresentazione di una sorta di città virtuale, le cui vie, quartieri, scorci e abitanti sono rappresentati dai diversi racconti e immagini in esso contenute.
Non diamo agli autori, solitamente, una tematica imposta proprio per tratteggiare l’aspetto schizofrenico delle città odierne, composte da una varietà infinita di attori, voci e contraddizioni.
StreetBook Magazine è un invito a vivere la città realmente, uscendo dagli schermi dei nostri device: oltre al dover uscire fisicamente per andarselo a prendere a giro, infatti, anche il nome nasce come contrapposizione a Facebook, genitore dei vari social che ora come ora appestano i nostri cervelli, astraendoci dalla realtà.
Quanti numeri sono già stati pubblicati e quando uscirà il prossimo?
Con il numero di settembre appena uscito siamo arrivati a 22 pubblicazioni ufficiali, cui vanno aggiunte le tre edizioni “clandestine”. Il magazine esce su base trimestrale, ogni marzo, giugno, settembre e dicembre.
Cosa cercate e pubblicate? Racconti, estratti, poesie? Avete un genere o delle regole precise?
In ogni numero pubblichiamo cinque racconti brevi, di cui uno riservato a redazioni di altre riviste (un’iniziativa creata per sviluppare una rete di piccole redazioni letterarie inaugurata quattro numeri fa), oltre a un articolo su argomenti culturali, affrontati con taglio leggero e ironico, e un’intervista rivolta ad attori del panorama culturale underground nazionale.
Non abbiamo regole stringenti per la selezione dei contenuti: tutto si svolge collegialmente nella redazione attraverso votazioni dei contenuti che ci arrivano, messi in gioco in forma anonima, in modo da evitare favoritismi e condizionamenti. La nostra intenzione è infatti quella di prediligere la qualità al anziché nome dell’autore.
Il gusto del gruppo è l’unico giudice, non abbiamo preclusioni o preconcetti. L’unica regola, indispensabile, riguarda la lunghezza del testo, per ovvi motivi di impaginazione. Abbiamo tre formati diversi: un “main” da 15000 battute, un “medio” da 9000 battute e tre “brevi” da 7000 battute.
Cosa deve fare un autore per convincervi a pubblicare un suo lavoro?
Semplicemente scrivere un bel racconto. E avere pazienza: gli slot disponibili per ogni numero sono pochi, quindi può capitare che un racconto, seppur ben scritto e di nostro gradimento, debba attendere per qualche mese prima di essere pubblicato. Abbiamo avuto casi di racconti pubblicati anche due anni dopo l’invio…
Per cercare di ovviare a questa problematica, da qualche mese a questa parte, abbiamo inaugurato anche una rubrica online dal nome StreetStoriesInediti, in cui pubblicare i racconti che per un motivo o per l’altro, faticano a entrare nella rivista.
Pubblicate anche in cartaceo? Se si, dove si può trovare la vostra rivista?
Come detto la nostra vocazione principale è quella cartacea, questo per la finalità su cui si basa l’intero progetto cui accennavo prima, cioè quello di far vivere la città e l’ambiente reale, non virtuale. Abbiamo una lista di distribuitori su Firenze, consultabile sul nostro sito www.threefaces.org. Abbiamo però anche una versione sfogliabile in digitale per ogni numero, che si può trovare sempre nel sito.
Poi è possibile richiedere il cartaceo su abbonamento in tutta Italia, tesserandosi per Three Faces. È possibile farlo a questo link: www.threefaces.org/diventa-socio/
Qual è la soddisfazione maggiore o inaspettata che vi ha dato la tua/vostra rivista?
Vedere ragazzi delle scuole superiori invitarci a parlare durante le occupazioni o le autogestioni, o addirittura pregare i professori perché ci invitassero per alcuni incontri formativi durante gli orari di lezione. Le prime volte non ci credevamo quasi, sono stati momenti molto emozionanti. Vuol dire che abbiamo fatto centro su coloro i quali vogliamo rivolgerci, i ragazzi.
Poi beh, sicuramente i primi eventi di presentazione della rivista ci hanno caricato molto: non per tirarcela, ma tuttora, pandemia permettendo, sono sempre molto affollati e partecipati. Ma i primi che abbiamo realizzato sono stati dei momenti di soddisfazione indescrivibili.
Cos’è che vi ha fatto davvero cascare le braccia?
Mah, di cose che ci hanno fatto cascare le braccia ce ne sono state diverse. La peggiore, almeno per me, è stata vedere una rivista generalista delle nostre parti, che non citerò, copiare integralmente e spudoratamente la nostra impostazione grafica, il taglio delle nostre copertine e la nostra identità redazionale, pur essendo una realtà commerciale nata con tutt’altro spirito rispetto al nostro. Ma, guardando la cosa da un altro punto di vista, la possiamo anche intendere come un attestato di stima e un riconoscimento del buon lavoro svolto finora. Dopodiché sta a noi rimanere un passo avanti a livello d’inventiva e originalità.
Cosa vi spinge ad andare avanti in questa attività così poco (o per nulla) produttiva?
La speranza di avere un impatto positivo sulla realtà sociale circostante. L’avere una funzione intellettualmente stimolante per i più giovani, quindi per il nostro futuro.
Oltre a questo fondamentale aspetto, la nostra volontà è anche quella di chiudere il cerchio con la nostra intenzione iniziale, quella di fondare una casa editrice indipendente. Negli ultimi mesi infatti abbiamo pubblicato il nostro primo romanzo a marchio Three Faces, Waltzing Matilda – È così facile che sembra difficile di Gianluca Bindi (che tra l’altro affonda le sue radici nel nostro primo progetto, Vai A Quel Paese) che sta andando molto bene a livello di vendite, pur non affidandoci a distributori. Inoltre abbiamo diverse altre pubblicazioni in cantiere, tra romanzi e graphic novel, quindi siamo fiduciosi di riuscire a coronare il nostro sogno originario. Incrociando le dita speriamo di tramutare Three Faces in un lavoro vero e proprio, presto o tardi.