Prima ancora di essere un omaggio partecipe a quella che è stata la scena rave (e la rave culture) romana degli anni Novanta del secolo scorso, Cassadritta di Roberto Grossi tende a raccontare e mappare un territorio.
Il territorio è appunto quello di Roma, della sua immensa periferia, anche se idealmente potrebbe essere ovunque, da qualsiasi parte nel mondo.
Grossi aveva già messo in evidenza questa sua attenzione ai luoghi estremamente periferici e “nascosti” patrimonio della Capitale d’Italia nel suo esordio del 2017, quel Il grande prato (uscito sempre per Coconino, come quest’ultimo) preceduto dall’autoprodotto 3boschi (2013).
Nelle tavole di Cassadritta, i luoghi segreti che Grossi mette in scena sono gli anonimi capannoni, le zone industriali dismesse, le periferie delle periferie in cui sono sorti e in cui restano come abbandonate carcasse di animali preistorici.
Descrive cioè le zone di una inesorabile piattezza storica, dei non luoghi a prescindere, eppure capaci di raccontare attraverso il loro essere rovine, la nostra contemporaneità.
Ci dicono come essa non abbia resistito al tracimare degli anni, all’evoluzione finanziaria ed economica, come non possa resistere tout court. Sono territori che dunque, almeno apparentemente, non appartengono a nessuno.
Proprio questa inappartenenza – che non muta nel tempo anzi, va a peggiorare (basta andare a leggere le otto tavole mute messe in chiosa, la loro ironia feroce) – li trasforma in elementi principe di un altro discorso.
Simili spazi inanimati sono i luoghi di elezione dove si ritrovava quel popolo trasversale, intenzionato a gestire una libertà “tribalistica”. Una gestione legata alla musica tecno, legata all’idea di danza, intesi come elementi trascendentali e non solo: da sempre connaturati al nostro essere umanità, diremmo. Danza e ascolto intesi inoltre come tempo infinito o, meglio, indeterminato, attraverso cui ritrovarsi e rendere liberi corpo e mente.
Anche a non apprezzare il suono tecno, house, industrial che fuoriusciva dai muri di casse durante i rave programmati e comunicati in maniera segreta, sotterranea – difficili da rintracciare e da trovare non solo dalle forze dell’ordine – è evidente quale senso di comunità pronta a formarsi vi fosse (e ancora vi sia, quando accade) nel tribalismo composito delle comunità che partecipavano a questi eventi. Evidente quanto acclarato.
Tornando al graphic, rispetto a Il grande prato i personaggi di Cassadritta riacquistano le iridi e un senso più spiccato di provenienza, perdendo al contempo parte di una loro strana unicità.
Diventano, più che elementi archetipici, parti di un evento collettivo. Diventano correttamente il “chiunque” dei partecipanti a un rave. La relativa moltitudine dei personaggi di Cassadritta, la coralità di cui si veste la storia, è una cellula di un corpo più grande, di una koinè per quanto momentanea.
Ognuno di loro, cercando e trovando il luogo del rave per agirvi, ha scavalcato la sua condizione sociale, eticopolitica, religiosa e quant’altro. Ognuno di loro si va a offrire totalmente alla musica “dritta” che fuoriesce dai monoliti di casse, a un sovracredo non quotidiano capace di unire nella singolarità. Come afferma uno dei personaggi della storia: «Sotto lo strobo tutti i gatti sono grigi».
Ci si perdoni se ribadiamo il concetto, ma Grossi crea veramente un affresco nitido di cosa era un rave nel Lazio verso la metà degli anni Novanta, capace di avere valore comunicativo e storico valido in qualsivoglia zona d’Italia.
È cioè un racconto universale, come universali sono i non luoghi in cui i rave avevano luogo.
Perciò quando Torazina afferma «È ora di togliere il coperchio. Il coperchio che copre questa città di macerie. Questa gigantesca pentola dimenticata sul fuoco a bollire… Piena di rabbia covata, di frustrazioni represse, di costrizioni subite. Togliamo il coperchio. Facciamoli ballare», non è tanto il dato localistico e urbanistico a venir fuori, ma l’intento politico, anche romantico presente in qualcosa che muoveva le generazioni degli allora venti-trentenni. Un sentire comune, un intento comune. Qualcosa che ritroviamo anche in Muro di casse, il romanzo (la bibbia) di Vanni Santoni uscito nel 2015.
Grossi cancella la retorica del rave (ogni retorica del rave) dal suo racconto, lascia che a parlare siano soprattutto i silenzi, le secche battute di dialogo fra i gruppi di personaggi diretti dove è la musica. Tiene soprattutto lontana la pompa della cassa in quarti in modo che luoghi e personaggi si possano dichiarare. Così facendo carica il racconto drammaturgicamente.
A se stesso, ribadiamo, lascia invece la possibilità di uno sguardo ironico quanto critico su di essi. Uno sguardo che non è mai, assolutamente, malevolo. Soprattutto si arroga con grande maestria il racconto di cosa erano e di cosa è accaduto agli spazi che ospitavano il rave.
Grossi mette così in scena, con la sobria puntualità di un architetto urbanista, cosa ne è stato di questi personaggi non umani, il loro essersi trasformati in una normalità aliena, in una comprensibilità senza vita, senza vitalità.
Sergio Rotino
Recensione al libro Cassadritta di Roberto Grossi, Coconino Press-Fandango 2021, pagg. 224, € 20,00