Lo sanno i jazzisti, i trapezisti e gli agricoltori: c’è un momento opportuno per ogni cosa. Credo sia sempre quello opportuno il momento in cui accadono gli incontri. Quello con l’artista Ernesto Lamagna è stato rimandato più volte e poi, una mattina di fine agosto, ho guidato fino all’Olgiata dove, davanti a un cancello bianco, mi aspettava il maestro Lamagna con sorriso, vocione da celo e sigaro in mano.
Pittore e scultore nato a Napoli e adottato da Roma, Lamagna non la tocca piano. Le sue opere parlano di cose sulle quali consigliano di tacere. Di cui nessuno vuole parlare. Mette in scena – per dirla con la Ferri – tanto buio, tanto colore, tanta noia, tanto amore, tante sciocchezze, tante passioni. Racconta le miserie umane, le cose che temiamo, fino all’orrore, di subire e di provare. E lo fa senza sottrarsi: ogni miseria porta in maschera il suo volto.
La sua casa-studio è piena di finestre. Dentro e fuori si mischiano. Fotografie di famiglia, dipinti, piccole e grandi sculture chiamano lo sguardo da ogni parte. All’ingresso ironia e dramma: saluta con il braccio teso la scultura del dittatore nano a cavallo, mentre sul muro in un dipinto si svolge l’antico rito della caccia al tonno. Più il là c’è Kairos, la divinità greca del momento opportuno, un uomo bello vestito di rosso arlecchino con una una tromba in mano che guarda in giù, forse con rammarico, con nostalgia. Di fronte a lui un uomo seduto con i gomiti sulle ginocchia rege con una mano la propria testa e spera… Adda passà la nuttata. Il suo corpo è tutto rivestito di articoli da giornali, notizie del mondo intero raccontano una nottata che sembra non finire.
Si gioca tutto, Lamagna. Lancia in aria, come gli acrobati dei circhi poveri, l’anima in ogni piroetta. Carattere forte e graffiante come la sua voce, possiede tutta la luce che serve per addentrarsi nei luoghi bui. In questa conversazione ci racconta la sua storia, i suoi inizi ed il suo presente, in un dipinto colorato di aneddoti e opinioni riguardo l’arte e il nostro tempo.
Mercedes Viola
#
Dove sei nato?
Sono nato a Napoli. Una volta Napoli era, per così dire, una città a dimensione d’uomo, ma oggi è cresciuta a dismisura con le sue numerose periferie, un pò come tutte le grandi metropoli. Io sono nato, invece, nella Napoli antica, proprio nel cuore della città, a piazza Borsa. Bastava salire per le scalette di Santa Barbara per essere già a Spaccanapoli, una lunga strada che, come dice il nome stesso, divideva a metà tutto il centro antico della città.
Napoli é una città antica, dai mille contrasti, dove bene e male s’intrecciano inesorabilmente. Una città greca, l’antica Partenope, ed infatti, ancora oggi, nel sottosuolo ci sono i suoi resti, le sue strade.
I Napoletani sono un popolo estremamente vitale, con una sua particolare filosofia di vita, direi molto orientale. Il riso, la gioia si confondono con il pianto e viceversa. Il bene ed il male si fondono, ed ogni problema trova una sua soluzione, nell’accettazione della vita, nella sua profonda umanità che contraddistingue questo popolo: ognuno indossa la sua maschera tragica o comica, quotidianamente, in una teatralità che non ha pari, e che ancora una volta ci ricorda le sue origini greche.
A Napoli tutte le arti sono sempre state fiorenti, dal teatro alla musica, dalla pittura alla scultura.
Quando sei venuto a Roma?
I miei si separarono quando avevo quattro anni: Puoi immaginare, all’epoca era un vero scandalo, e la cosa certamente mi segnò per sempre. Mia madre si trasferì a Roma, e quindi io ho vissuto tutta la mia giovinezza tra Roma e Napoli. Ho vissuto un pò con mia madre, un pò con mio padre, un pò con mio nonno paterno, un pò in collegio, un pò con delle mie zie zitelle, finché poi finita l’Accademia venni a Roma definitivamente e lasciai Napoli. Oramai sono cinquanta e più anni che sono a Roma, ma mi ritengo Napoletano per nascita e formazione.
La tua passione per la pittura come nasce?
Mio nonno paterno era un bravo pittore della scuola di Posillipo, e l’attitudine al disegno credo di averla ereditata da lui.
Io sin da bambino disegnavo. Stavo sempre dietro a mio nonno perché volevo imparare. Ma la predisposizione al disegno é un fatto naturale, un dono di Dio. Il disegno é alla base di tutto, sia della pittura che della scultura. Se non sai disegnare come fai a fare il pittore o lo scultore? O per lo meno così s’intendeva l’arte.
E alla scultura come ti sei avvicinato ?
Non lo so neanche io. Mi piaceva. La prima mostra la feci a Via Margutta, qui a Roma. Avevo quindici anni. Era la strada degli artisti. Gli affitti all’epoca costavano poco. Una volta all’anno aprivano tutti gli studi agli appassionati d’arte. La gente girava liberamente da uno studio all’altro, ed oltre a vedere le opere, trovavano sempre un pezzo di formaggio, del salame o un bicchiere divino. Scendevano poi per strada e lungo i muri dei palazzi attaccavano un pò di quadri o sistemavano delle sculture.
Una festa.
Si, era una festa di tutta la strada. Adesso invece é diventata una cosa falsa. Oggi ci sono i Cento artisti di Via Margutta, una mostra organizzata dal Comune di Roma, ma non trovi più gli artisti. E neanche ci sono più gli studi degli artisti. Li hanno mandati tutti via con affitti altissimi che non possono pagare. E’ diventata una strada lussuosissima, vicino piazza di Spagna, ma che non ha più nulla a che vedere con l’arte. E’ cambiato il volto della strada. Invece, quando andai a quindici anni con i miei quadri, le mie sculturine, ricordo che mi aiutarono i miei amici che già allora tifavano per me. Andammo con l’autobus e con le opere sottobraccio. Timidamente chiesi se potevo esporre anch’io qualcosa, e loro mi dissero: trovati un pezzo di muro. Poi, vennero i miei amici che nel frattempo avevano fatto il giro della strada, e sconvolti mi raccontarono che in fondo, quasi alla fine della strada, c’era un pazzo che aveva esposto tutte vecchie tele di sacco, sporche e rattoppate: era un certo Burri. Invece, quasi accanto a me, c’erano dei dipinti di Ottone Rosai, che all’epoca era già abbastanza conosciuto ed apprezzato. Non lo conobbi all’epoca, ma due anni fa, partecipai ad una grande mostra curata da Sgarbi al Museo Doebbing di Sutri, dove tra l’altro c’erano Ligabue, Pirandello, Guttuso, Francis Bacon, e proprio accanto a me… Ottone Rosai. Vedi com’é strana la vita?
Da lontano poi sembra che tutto abbia un disegno.
Si, un destino.
Mi chiama l’attenzione questa parte tragica, triste delle tue opere.
La gente che mi conosce prima di vedere le mie opere, quando poi le vede, rimane sempre sconvolta, perché non riesce a capire. E’ come se io avessi in me due persone diverse. E’ come l’anima stessa di Napoli. In tutto quello che faccio, da sempre, senza che io ci pensi, c’é Napoli, la teatralità di Napoli. Prima dicevamo che i napoletani quando escono di casa indossano una maschera.
Ed escono tanto!
Stanno sempre per strada. Ma questa è una prerogativa di tutto il sud dell’Italia, anche delle Puglie, della Sicilia, sono sempre fuori casa e sono ovunque nel mondo. Hanno la capacità di adattarsi a tutte le situazioni, e nascondono il pianto solitamente. Hanno sempre una battuta per sdrammatizzare ogni cosa. Sono sono pronti alla battuta, all’ironia, allo scherzo. Poi, però, nel fondo della loro anima, hanno quasi sempre questa tristezza, questa nostalgia, e a volte questo dramma nascosto. Nelle mie opere c’è tutto questo, sempre. Quando ero ragazzo, un giorno mia madre mi disse: Ernesto, fammi un bel volto sereno… Povera donna!
La sala dove scolpisce ha una grande vetrata che dà sul giardino. In un angolo c’é una scultura di un uomo che tiene una bambola-bambina sul grembo. Di cosa si tratta ?
Questa scultura rappresenta un pedofilo. L’ho chiamata La bambola di pezza, però ha degli occhi che sono come veri, sono delle protesi di vetro. E lui ha sulla fronte la maschera, che è la maschera del mio volto. In quasi tutte le mie sculture c’é la maschera del mio volto. E’ una maniera per partecipare pienamente le mie opere.
Faceva parte di una mostra che feci e che dovetti chiudere perché scoppiò uno scandalo in tutta Italia. S’intitolava Miserere. Erano le miserie umane. Ma io non è che salgo e giudico, no: sono io tutti loro, perché sono le nostre miserie umane. Siamo uomini.
Cos’è successo con questa mostra?
Ero stato invitato dal comune di Verona a fare questa mostra che avevo concepito dal titolo Miserere. C’era un Cristo senza croce, senza braccia, quindi non ha più la capacità di com-prendere. Di prendere in sé. Non è che io sia particolarmente cattolico, mi piace la figura del Cristo, la trovo stupenda perché rappresenta l’uomo nella sua umanità. Lui ha paura di soffrire e chiede al padre di allontanare il male. Cade una volta e si rialza, e anche altre volte fino alla fine che dice ‘tutto è compiuto’. E’ l’uomo. Siamo noi.
Anche l’amicizia, il tradimento.
C’erto, fu tradito. Altri disegni facevano parte di questa mostra come il Giuda che s’impicca, il grande sacerdote che lo accusa.
Però, siccome tra queste miserie c’era la scultura di un transex, ci fu una conferenza stampa prima della mostra. Il curatore, quando i giornalisti gli chiesero quali fossero queste miserie, disse: la vecchiaia, la malattia, il transex… E scoppiò una guerra furibonda.
Fui subito attaccato dall’Arcigay del Veneto. In mia difesa scesero Sgarbi, Oliviero Toscano, Platinet. Poi diventò un fatto politico, perché la destra, che io non avevo assolutamente chiamato, scese in mia difesa, la sinistra in difesa dell’Arcigay. Ci furono addirittura denunce penali tra di loro.
Però, siccome i giornali ripetevano sempre Lamagna, lo scultore del Papa, incominciai ad avere pressione dal Vaticano. Ad un certo punto il Cardinale, che era il Ministro dei Beni Culturali, mi disse Senta Lamagna, lei questa storia la deve far finire. Va bene, dissi. La mostra, che era stata più volte rinviata, non la faccio più. Però, dico, venite in fonderia a vedere, se non altro, sta scultura.
L’indomani c’era fuori dalla fonderia tutta l’Arci gay che protestava coi cartelli, e c’era anche la polizia, i carabinieri. Ma venite dentro! dico. Venite dentro a protestare ma vedetela questa scultura, no?
Sono venuti a vedere questa scultura. Io gliel’ho spiegata. Una scultura, tra l’altro, bellissima, oserei dire, poetica. Loro chiesero scusa e mi offrirono la tessera ad honorem dell’Arcigay, che io devo conservar da qualche parte.
Come vivi le polemiche, le accuse?
Non è che mi smuovano più di tanto. Certo, in quel momento ci fu tensione. La cosa andò avanti un mese. Poi alla fine si chiarì la cosa e io fui ben felice di accettare questa tessera ad honorem e tutto fini. La vita è fatta pure di questo cose. La vita di un artista poi è piuttosto movimentata.
Da queste cose si capisce la potenza che l’arte può avere?
Se l’arte diventa pensiero, fa paura, dà fastidio. Se fai il nudo tranquillo, bello, va bene a tutti.
Poi tutto viene politicizzato, tutto cade in politica e questo non è un bene. Perché l’arte dovrebbe essere al di sopra. L’arte è pensiero. Pero sai che cosa c’è? Che se tu ti limiti a fare la ballerinetta, quella sta bene da per tutto: sta bene davanti al Ministero, alla Chiesa, ovunque. Io qui ho iniziato a fare la scultura di un Papa Nero.
Sei riuscito a vivere di arte?
Sono sempre riuscito a vivere dell’arte. E me ne vanto. Ho due figli, laureati tutti e due, mia figlia è medico e mio figlio laureato in giurisprudenza. Ho sempre vissuto di arte, con l’arte, per l’arte. Non ho mai insegnato. Quando ero giovane, apena sposato, ero un po’ preoccupato e volevo darmi all’insegnamento. Mia moglie, che è una donna molto forte, disse Ernesto, o insegni o fai l’artista. Ed è vero. Perché l’insegnamento non è più come facevano una volta. Una volta all’Accademia ti chiamavano per chiari meriti. Avevi già un nome e avevi già creato la tua vita. Invece adesso sono come tutte le carriere statali: fai il concorsetto, sei appoggiato politicamente, e vai a insegnare a Canicattì, poi a Catania, poi a Palermo e mano a mano ti portano a Roma. Ma chi sono oggi i professori dell’Accademia? Emeriti sconosciuti che non sanno tenere una matita in mano, che non sanno disegnare, che non sanno modellare. Io mi definisco da solo uno degli ultimi artisti del Novecento.
E come hai iniziato?
Quando da giovane andavo in fonderia a lavorare, mi incontravo con grossi nomi. Tuombly, Fassini, e si rubava con gli occhi, si cresceva, però avevamo un mestiere serio nelle mani. Si modellava prima la argilla, poi si facevano le forme, poi si interveniva sulla scultura di gesso, poi sulla cera e poi quando avevi la fusione te la patinavi con gli acidi. C’era un mestiere. Io ho fatto di tutto, anche gioielli. Perché me lo chiedevano e io non mi rifiutavo. Ho fatto da calici per Cardinali sino ai portoni di bronzo di sei metri.
In quali tue opere ti ritrovi di più?
Tutte.
Anche nelle commissioni?
Si. E’ lì che si vede quello che vali. Perché, vedi, a Caravaggio, a Raffaello, a Michelangelo li davano delle commissioni, però rimaneva Caravaggio, Raffaello, Michelangelo. Non è che la commissione ti sminuisce. Se hai personalità, tu la tua personalità te la fai rispettare. A parte che ti conoscono e sanno quello che li puoi dare. Sono un espressionista e non sono mai uguale neanche a me stesso. E’ una ricerca continua.
Credi che un’opera possa trasmettere un messaggio anche se chi la guarda non conosce l’artista né le sue idee?
L’opera trasmette sempre dei messaggi. Molto spesso mi dicono che le mie opere sono pugni allo stomaco. Non passa inosservata una mia opera. C’è sempre qualcosa. La mostra di Sutri, per esempio, lì Sgarbi incominciò a fare delle mostre che ha chiamato Dialoghi. Secondo lui l’arte è un filo unico, rosso, che parte dai graffiti nelle caverne sino ai giorni d’oggi. Non c’è interruzione, è la storia dell’uomo. Non puoi studiare l’arte senza studiare la Storia e l’economia di quel periodo, il pensiero, la filosofia. Come fai a capire il futurismo se non studi Marinetti? Come fai a capire il pensiero di Marinetti se non studi il suo momento Storico? Quindi lui, forte di questa idea, ha messo a dialogare da Tiziano quindici artisti. Tra questi ci sono io.
Ci sono paure che noi ci portiamo dentro. Io le caccio fuori. La gente non vuole pensare, perché il pensiero fa paura. A tutti, a cominciare dai politici. La cultura fa paura.
S’insinua il circo in molte tue opere.
Amavo il circo. Da bambino portavo sempre i miei bambini. Li portavo proprio sotto la pista. Anche Fellini amava il circo. E’ di grande poesia ma anche estremamente drammatico. Non sempre erano i grandi circhi ricchi, ma i piccoli circhi, con quello che si liberava dalle catene, o si mangiava il fuoco, i costumi consumati.
Hai qualche mostra in vista? Di cosa parli in questo momento?
Fra giorni ci sarà una mostra mia al Mart di Rovereto. Parliamo dell’Afganistan.
Nel 2008 sono andato a fare un corso di scultura e pittura ai giovani dell’accademia di Herat. E’ un mondo che se non lo vedi non lo puoi immaginare. In aula insegnavo con due militari armati come guardia del corpo perché, mi disse il generale Serra, che comandava le truppe italiane: guardi che se fra questi giovani c’è un talebano, la sgozza con la matita.
Il primo giorno in classe entrarono in fila prima tutti gli uomini e, dopo, le donne. Ed erano quelle emancipate. Avevano un velo nero che arrivava fino ai piedi.
Mi chiesero: domani cosa dobbiamo copiare? Domani non copiate niente. Adesso ve ne andate a casa, andate a dormire, vi fate un bel sogno e domani ognuno rappresenterà quello che ha sognato.
Incominciarono a cacciare fuori quello che avevano dentro. Una donna dipinse una grande tela del volto di una donna giovane avvolta dalle fiamme. Che vuol dire? chiesi. Questa è mia cugina, aveva ventidue anni, madre di tre figli e si è uccisa dandosi fuoco.
E così ho scoperto che nella provincia di Erat moltissime donne, ogni anno, si suicidano e lo fanno dandosi fuoco. Perché non resti nulla del loro corpo. Perché pur di sfuggire ad una vita d’inferno, si danno fuoco.
Quando andai in Afganistan scoprì che la maggior parte delle terra coltivabile era coltivata con papaveri da opio, e i talebani si finanziavano con l’opio. Perché gli americani, che sono stati lì vent’anni, non hanno bruciato queste piantagioni?
Invece vicino alla caserma dove alloggiavo c’erano le villette. Chi abita lì? I mercanti di droga.
Ma secondo te com’è possibile che questi talebani in sei giorni occupavano tuto l’Afganistan quando c’erano gli eserciti addestrati ed armati, senza combattere? Sono tutti giochi politici, economici.
Questa è l’ipocrisia di cui parlo con le mie opere. Siamo ipocriti.
Non devi scomodare nessuno. Quando Cattelan appese i manichini dei bambini ai rami della Villa, a Milano, scoppiò uno scandalo. Che voleva dire Cattelan? Che si stava uccidendo l’uomo, che non avevamo futuro.
Trovi solidarietà nel mondo dell’arte?
No, siamo tutti divisi, tutti solitari. Siamo divisi culturalmente. Che è un bene e un male. Ognuno segue la sua strada. Io ho dei cari amici, ma siamo tutti divisi.
Chi consacra il valore artistico di un’opera?
Il tempo e il popolo.
Anche il popolo che di arte non ne sa?
Sì.
La mia arte non è un’arte facile. Non ho mai fatto arte commerciale. Potrei farla, sarebbe facilissimo per me. Ho sempre sfidato. Ho sempre rischiato. Perché sai, una fusione grande costa anche ventimila euro. Devi avere coraggio per fare un pedofilo e spendere ventimila euro.
Oggi ti chiamerebbero un outsider?
Sì, e ne sono fiero. Ho fatto quello che volevo senza dovere niente a nessuno. Non ho mai avuto a che fare con i galleristi. Li consideravo, tranne pochissimi professionisti, in gran parte dei bottegai. E poi, il percorso dello scultore è molto diverso da quello del pittore. Ho fatto una strada molto particolare, da solo. Ho sempre rifiutato una tessera di partito. Negli anni 70 vennero due volte a offrirmi la tessera del Partito Comunista. Io dissi ‘vi ringrazio, ma devo rifiutare. Secondo me l’arte deve essere libera. Totalmente. Da qualsiasi ideologia.’
Io sono un vulcano di idee e sono sempre stato estremamente affamato di rapporti umani. Se qualcuno ama una mia opera gliela regalerei. Ho sempre voluto essere amato, come tutti penso.
E poi mi sono sempre dato da fare.
Oggi purtroppo è diverso, oggi tu non ti muovi, non fai nulla se non hai le conoscenze. Se tu vuoi fare una mostra shock, nessuno te la fa fare. Devi avere il giornalista tale e quale, che scriva nel giornale giusto…
Ma Mercedes, ti posso dire? Non me ne importa niente. Sono stato un uomo libero.