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Sempre Tornare. Intervista a Daniele Mencarelli

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Daniele Mencarelli si è messo in gioco. Imponendo a se stesso quello che lo scrittore Philippe Lejeune chiamò il patto autobiografico.

Con La casa degli sguardi, infatti, ha avuto inizio un ciclo sulla sua vita, che passa da un secondo volume dal titolo Tutto chiede salvezza e che trova il suo compimento con Sempre tornare, tutti editi da Mondadori.

Si tratta di un certosino lavoro di auto-fiction che, negli ultimi anni, sta trovando il favore di editori e pubblico. Basti pensare ad altri cicli, più o meno corposi e che tantissima fortuna stanno riscontrando nel mondo, dal norvegese Karl Ove Knausgård, al francese Edouard Louis che in comune con l’opera di Mencarelli hanno il coraggio, la sincerità.

Ne sono prova i premi e gli adattamenti per il cinema e la televisione.

Mencarelli è un proiettile, ovunque arriva ferisce.

Al cuore, allo stomaco. Nell’ultimo lavoro affronta la sua adolescenza di ragazzo irrequieto che si affaccia alla vita pieno di domande.

Si tratta di un romanzo di formazione sulla strada. Daniele, in vacanza con gli amici, decide di isolarsi e proseguire in autostop.

Senza soldi e senza documenti, sarà costretto ad affidarsi. Vincendo la paura, la diffidenza, si rimette al mondo come un pellegrino, mosso dalla stessa sete di chiarezza. Le domande del giovane Daniele, sono le stesse, ataviche, che l’uomo un tempo a gran voce si poneva e che oggi ha smesso di porsi.

Nell’intervista che segue, abbiamo cercato, insieme all’autore, di affrontare diverse tematiche e di provare a capire il suo punto di vista sulle tante questioni che Sempre tornare pone al lettore.

Pierangelo Consoli

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Con La casa degli sguardi e Tutto chiede salvezza, hai dato vita ad una trilogia molto personale che si chiude con Sempre tornare, intanto ti chiedo se questa premessa è giusta?

Sì, il desiderio iniziale era esattamente questo: offrire tre storie che andassero a comporre una sola grande parabola. Tre storie che non sono una serie, sia chiaro, si può leggere uno solo dei tre libri, o leggerli senza un particolare ordine. Io il mio ordine personale ce l’ho chiaramente, ma non è detto che debba essere l’unico. Ciò che a me premeva era l’offerta di un’educazione sentimentale, quella di un ragazzo che vive l’esistenza sentendone costantemente l’incredibile privilegio, e assieme tutti i limiti e contraddizioni che fanno parte della nostra natura. Un ragazzo con uno sguardo che prende costantemente la forma dell’interrogativo. E che soffre scoprendo l’impossibilità di giungere a uno straccio di risposta. La scommessa di questa trilogia, se vogliamo dire così, sta nel fatto che la natura del protagonista, apparentemente estrema, è in realtà quella che vive dentro tutti. La sua fame di significato è un tratto universale dell’umanità, da sempre, solo che l’uomo contemporaneo se n’è dimenticato, la modernità ha trasformato questa ricerca fondamentale in qualcosa di desueto, risolto, non più attuale. Ma non è così.

Poi volevo sapere se, finito questo che potremmo chiamare un ciclo sulla tua vita, hai intenzione di cominciarne un altro?

Non so se saranno cicli, diciamo che ho in mente altri spunti che partono sempre da un confronto con la realtà, con il presente. In questo senso la mia formazione poetica è dominante. Il primo territorio di indagine, umana e linguistica, è sempre il proprio vissuto. Io credo che, per quanto oggi ci si ostini a prendere le distanze da questa affermazione, si parta sempre da qualcosa di concreto, vissuto, da se stessi o dagli altri.

Si parla molto, in questi anni, di autofiction e, di conseguenza, se sia davvero possibile scrivere di sé in maniera del tutto sincera senza applicare gli schemi tipici della finzione letteraria, tu cosa ne pensi?

Ne potremmo parlare all’infinito. Qualsiasi premessa è buona per costruire un grande libro. Oggi ci sono una miriade di professorini che vorrebbe legittimare o meno chi parte da esperienze reali, spesso biografiche. Io trovo tutto questo quasi comico. La letteratura è sempre altra cosa rispetto al vissuto. È la lingua a fare la differenza. Non è scrittore chi possiede la storia, ma chi la sa scrivere. Da dove derivi la sua scrittura non so quale interesse possa avere. Poi, nel mio caso, con anni di dipendenze alle spalle, non so più rispetto a tanti eventi, esperienze, cosa sia vero e cosa sia ricostruito in maniera mendace dalla mia memoria. Ma, ripeto, è qualcosa che mi interessa poco.

Mentre mi interessa tutto, spesso ossessivamente, della parola che prende vita e corpo su un foglio bianco.

Si può dire che il tuo sia un approccio “documentaristico” alla scrittura?

No. Per quello che dicevo poc’anzi. L’elemento documentale serve al pari di tutti gli altri. Al pari dell’astrazione, dell’immaginazione, della dimensione onirica. Semmai, credo in una letteratura che sappia innervare tutti questi elementi in un racconto profondamente ancorato alla realtà e alle dinamiche di essa. Lo dico spesso: la realtà è un teatro. Mettere in scena, questo sì.

Mi incuriosisce la scelta di narrare al presente una vicenda così indietro negli anni, oltre al fatto che il presente letterario è un tempo molto arduo da gestire, come mai?

Quando mi sono ritrovato a lavorare al primo romanzo, dopo tanti anni e libri di poesia, ho sentito il registro della prima persona al presente quello più aderente al mio obiettivo principale in termini di scrittura. Dar vita a un dettato che faccia della tensione la sua caratteristica costitutiva. Tensione del vissuto, dell’azione che si svolge. È il registro che sovrappone al meglio, almeno per me, lo sguardo del lettore a quello dell’io narrativo.

Ad un certo punto, nel libro, dici che l’infelicità invecchia, è una cosa che senti su di te? Quanti anni senti di avere?

Mi vengono in mente tante poesie di grandissimi autori rispetto a questo tema. Sarò inelegante, ma ti rispondo citando un altro passaggio del libro: “Questo dolore, il mio dolore, è più grande di me. Ha secoli. Millenni. Non so perché mi abbia scelto”.

Leggendo ho avuto la sensazione che Daniele sia un ragazzo che, al di là del credo, cerchi la fede in senso molto ampio. La sua voglia di risposte ha un che di mistico non credi? Trovi che il suo vagare, il suo affidarsi al mondo, abbia qualcosa del pellegrino?

Anche qui prevale la formazione poetica. La poesia è la lingua che indaga, spesso in modo sublime, il tema del sacro. Claudel definiva Rimbaud: mistico allo stato selvaggio. Credo che certi interrogativi siano insiti nella statura originale dell’amore. Chi ama non può non sentire la spina della morte.

Hai figli?

Sì, due, uno di quindici, l’altra di dieci anni.

Come padre, incoraggeresti tuo figlio, oggi, a intraprendere un viaggio simile?

Molte persone che hanno vissuto il tema della dipendenza sono diventate proibizioniste, spesso in modo violento. Non è il mio caso. Parto dal presupposto che la libertà sia un bene inalienabile, ognuno ha il diritto-dovere di esercitarla come meglio crede. Vivere tutto, ma con consapevolezza, rispetto della propria natura e del proprio corpo, anche, soprattutto, in tema di sostanze stupefacenti. Ai miei figli posso augurare i migliori viaggi possibili, che sono quelli dove gli imprevisti la fanno da padroni…vivere come sinonimo dell’incontro, della conoscenza che si fa amicizia. La vita senza queste vicende è così triste, povera.

Da ex praticante a tempo pieno, hai anche tu l’impressione che l’autostop, “er dito” come lo chiami nel libro, sia una pratica estinta? Come mai? Al di là del Covid, dico, perché a me pare che fosse entrata ampiamente in disuso già da qualche anno prima, che dici?

Dobbiamo farci un viaggio assieme allora! A parte gli scherzi, l’autostop è una pratica estinta, ed è emblema straordinariamente preciso della nostra epoca. Oggi tra noi esseri umani regna la paura, la diffidenza reciproca. Uno sconosciuto, oggi, è vissuto al pari di un nemico. Oggi l’autostop sarebbe una pratica quasi eversiva…invece a me ha dato tanto, vivevo in osmosi con persone che ti offrivano un passaggio per il gusto di parlare, sfogarsi, e tu facevi lo stesso.

Si viaggiava, viveva, gli uni vicini agli altri, e spesso si diventava amici. Non è nostalgia, è un dato di fatto purtroppo.

Ho letto che ne faranno un film, intanto ti chiedo se è vero e soprattutto come ti fa sentire questa cosa?

Sì, Paolo Genovese ne farà un film, scriveremo assieme l’adattamento del romanzo. Tutto chiede salvezza, invece, sta diventando una serie Netflix diretta da Francesco Bruni. Le sensazioni sono tante, all’inizio di terrore, ma posso dire di aver incontrato due registi, uomini, di grande umanità e spessore artistico. Ma su questo argomento ci sarebbe tanto da dire. Alla prossima intervista…

Grazie.

Grazie a te, tutti voi.

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Daniele Mencarelli, Sempre Tornare, Mondadori, pp. 324, euro 19.

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