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Paolo Maggis inedito. Dehor e botox

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Arrivò puntualmente in ritardo dei suoi soliti cinque minuti, una precisione in differita che non ho mai creduto fosse casuale. L’ho sempre immaginata in equilibrio su i suoi tacchi nascosta dietro l’angolo più vicino aspettare pazientemente che quel ritardo venisse rispettato.
Con un movimento simmetrico delle mani si levò dalle orecchie gli elastici che le tenevano stretta in viso la FFP2 color oro mostrando così due labbra carnose evidenziate dal rossetto rosso antico.
Appoggiatami delicatamente la mano destra sulla spalla mi schioccò due baci, uno per lato, all’altezza all’orecchio in modo che quel suono riecheggiasse nel padiglione auricolare.

Da subito iniziò a parlare con esuberanza del quadro che una di quelle gallerie spocchiose, di quelle per cui l’arte italiana si riduce ai quattro nomi dei loro amichetti di tavolo e ad un orda di nomi stranieri che goffamente stentano a pronunciare, gli avevano appeso nella sala riunioni. Ovviamente in prestito così da dargli visibilità con i suoi clienti che, come in teoria avrei dovuto sapere ma teneva ogni volta a risottolineare, erano persone facoltose e di cui per privacy non poteva fare i nomi.
Mi spiegò che l’arte era un passaporto, un modo, come la mascherina che indossava d’altronde, per rendersi riconoscibili ai simili.
Interrompendola le ricordai che ero artista e che per me l’arte aveva tutt’altra funzione.
Interrompendomi a sua volta e non meno bruscamente, asserì infastidita che in effetti era inutile parlarne con me dato che appartengo a quella classe di persone idealiste che crede ancora che l’arte abbia un valore al di fuori di quello prettamente commerciale e che, forse, sarebbe stato meglio andare a mangiare qualcosa perché aveva una fame “terribile”.

Ci incamminammo mentre in testa mi ronzavano rumorosamente una serie di pensieri non certo positivi rispetto al tempo che dedico a persone come lei e che forse dovrei utilizzare altrimenti.
Nel mentre lei seguitava rantolando dentro il suo becco dorato una serie di cose che non stavo ascoltando certo che, alle persone come lei, non interessa che la persona che hanno dinanzi ascolti e comprenda, bensì che stia lì come puro pretesto per un soliloquio autoreferenziale.
Prendemmo posto al tavolo in un dehor di uno di quei ristoranti in via Brera da dove si può osservare attentamente la fauna milanese in passerella.
Ordinando, nonostante le avessi detto e ridetto per ben tre volte che non bevo bianco, lei si fece portare una bottiglia di  Sauvignon. Alla terza forchettata del primo ed unico piatto il livello era già sceso sotto la metà del corpo della bottiglia.
Mi chiese se mi ricordassi di quando eravamo giovani e se mi ricordassi dei tempi dell’università.
Le risposi che ci eravamo conosciuti più tardi, ma era come se non mi sentisse.
Sgranò una lunga lista di nomi di locali, ristoranti e bar dei quali ricordavo solo due o tre per sentito dire.
Mi resi conto che la differenza tra lei e me era abissale: mentre lei a quei tempi andava dal parrucchiere una volta alla settimana, faceva shopping in Montenapoleone e pranzava in ristoranti dai nomi elaborati, io avevo i capelli lunghi, il pachistano al collo e la maggiorparte delle volte il mio pranzo consisteva in un cappuccino preso in un bar davanti a Piazza San Marco che chiamavamo “Bar del cazzo” per quanto fosse squallido.
Di colpo si fermò incalzando il mio sguardo con il suo. Era gelido e per un attimo provai una sensazione strana che chiedeva al mio corpo di allontanarmi da lei il prima possibile.
Mi chiese di girarmi e guardare dei ragazzi.
Lo feci. Vidi due ragazzi seduti uno accanto all’altro nonostante i consigli e restrizioni dell’epoca e la ragazza che rideva sedendosi prima sulle ginocchia del primo e poi su quelle del secondo in una specie di gioco erotico e sensuale che conosco, in cui mi ritrovo e ricordo con gioia. Nessuno dei tre indossava la mascherina e i volti mostravano le emozioni senza pudore.

Mi disse che avrebbe lasciato tutto quello che aveva a cambio di un momento simile.
La guardai ed i suoi occhi ora si erano trasformati. Fragili brillavano di ebbrezza e, forse, non solo.
Mi disse che da sempre aveva trovato odiosi e provato ribrezzo per quel genere di ragazzi.
Aveva sempre pensato che bisognava disprezzarli per il modo in cui buttavano via il tempo, per la loro superficialità; per quella debolezza che provavano verso l’attrazione sessuale e che li allontanava da una possibile realizzazione futura. Pensava che il loro egoistico vivere presente potesse ledere alla riuscita nella vita, che potesse allontanare dell’obiettivo che ognuno doveva prefiggersi e perseguire per essere “parte organica della società”. Senza obiettivo, disse, sei solo un animale in preda agli istinti.
Ma ora… invece ora capiva che quell’insofferenza viscerale era solo invidia. Quell’odio era proporzionale all’invidia di qualcosa che aveva perso per sempre e che non avrebbe mai più potuto recuperare.
Perché aveva dato più importanza all’obiettivo che al desiderio.

Mi chiese tre volte retoricamente se riuscivo vedere quei corpi.
Mi chiese se anche io riuscivo a vedere quella forza bestiale, quella passione. Se riuscivo a leggere la pulsione che si muoveva sotto i pantaloni, le gonne e le magliette.
Mi disse che lei guardando i ragazzi giovani ne immaginava i corpi nudi, i movimenti delle fasce muscolari, i brividi sulla pelle, i capezzoli turgidi ed i cazzi duri, l’odore nelle mutandine delle ragazze e l’odore delle ascelle dei ragazzi.
Quelle immagini la tormentavano in continuazione: mentre lavorava in ufficio, quando entrava nel suo appartamento di City Life, quando da sola la sera cercava di leggere un libro o vedere il programma di quella giornalista che tanto le piace, persino di notte quando dormiva in sogno.
Era tormentata perché adesso desiderava quella “roba lì”, desiderava essere trascinata da quell’istinto sessuale che se ne frega di tutto perché é così intenso far dimenticare che qualsiasi limite possa esistere.
Solo adesso! Si rendeva conto solo adesso… adesso che non l’avrebbe più potuto sperimentare.
Atto riflesso prese la FFP2 e disse che se avesse avuto la loro età, se per un attimo avesse potuto liberarsi della sua condizione di donna di mezza età tenuta insieme da palestra e botox, non le avrebbe importato nulla di nessun divieto e si sarebbe unita a loro.
Le feci notare che quell’età noi l’avevamo già superata da tempo.
Mi guardò con rabbia e mi disse che l’aveva, appunto, “solo!” superata ma non l’aveva mai vissuta.
Mi disse che lei non si era resa conto di cosa avesse bisogno il suo corpo, di come fosse importante quell’attimo di giovinezza, di vera passione, ed ora era cosciente che l’aveva perso per accontentare altri, dai i genitori ai professori, dai docenti ai datori di lavoro.
Ora che aveva tutto quello che aveva chiesto alla vita l’unica cosa che desiderava era quella bellezza e quella leggerezza al punto tale che, non potendola più afferrare, aveva dovuto iniziare ad odiarla. Doveva a tutti costi proteggere le sue scelte dall’onta del fallimento tanto che, quando quel desiderio rimosso si ripresentava plasticamente davanti ai suoi occhi, al posto di sentirsi umiliata, al posto di vedere negato il valore dei sacrifici fatti, aveva scelto di odiare.
E quindi odiare chi si permetteva il lusso di lasciare che quel desiderio fosse.

Terminò il vino che aveva nel bicchiere e se versò dell’altro. E poi sospirando disse che era una violenza, soprattutto in una situazione simile.
Mi guardò come se volesse che la compatissi.
Sembrava che cercasse per la prima volta in me una relazione, un qualcosa che avesse a che fare con una tipologia strana ed egoista di comprensione.
Ma io di comprensione non glie ne volevo dare. In fondo era riuscita a mentire a se stessa un’altra volta solo per giustificare il rancore che provava. Voleva sentirsi vittima quando non era semplicemente complice ma artefice.
Presi la scusa di un appuntamento e la lasciai sola a terminare la sua bottiglia.

Da allora non ci siamo più sentiti ma son sicuro che quando riceverà il link della pubblicazione di questo breve racconto mi manderà un commento meraviglioso o un bel pollicione in su o una faccina che da il bacio perché non l’avrà nemmeno letto.

 
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