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La poesia degli alberi. Intervista a Mino Petazzini

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Opera immensa, per mole e per contenuti, La poesia degli alberi è definibile come “antologia tematica” interamente dedicata ad “alberi, arbusti e qualche rampicante”.

Opera cui l’autore, Mino Petazzini, si è dedicato cercando, mettendo da parte, catalogando testi poetici e non solo per circa quarant’anni.

Da Giovambattista Marino a Tomizawa Kakio, La poesia degli alberi ci conduce senza soluzione di continuità fra autori antichi e moderni, noti e assolute scoperte, che parlano di quelli che sono elemento principe del paesaggio a noi circostante e della Natura presa per intero.

Libro delle ore più che antologia, Petazzini riesce a trasmettere con questo suo lavoro l’idea di prossimità e di necessità che gli esseri umani hanno riguardo agli alberi. È riesce a trasmettere la vicinanza che questa bella, complessa forma della Natura ha da sempre con noi, con il nostro sentire.

Abbiamo contattato Mino Petazzini nell’ufficio di direzione della Fondazione villa Ghigi a Bologna per parlare appunto di questo suo lavoro antologico.

Sergio Rotino

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L’antologia che hai creato e curato è arrivata alla quarta ristampa. Essendo una antologia poetica, quindi qualcosa che si muove all’interno di una nicchia di mercato, ti aspettavi una simile risposta da parte dei lettori?

Non ne avevo idea. Tutto sommato, che l’antologia potesse arrivare ad avere almeno due o tremila lettori, mi sembrava possibile. In fondo, oltre a persone interessate alla poesia, è un libro che può incuriosire anche tanti appassionati di natura. E poi gli alberi esercitano, da sempre, un fascino peculiare. L’ho constatato tante volte, nel mio lavoro. Negli ultimi tempi, poi, albero sembra diventata una parola magica. Bisogna piantare alberi, milioni di alberi, per contrastare il cambiamento climatico, contenere l’inquinamento nelle aree urbane, e così via. Quando viene tagliato un albero in città, a torto o a ragione, c’è quasi sempre una sollevazione. Ci sono quelli che li abbracciano, persino che gli parlano…

Il lavoro che hai fatto nella ricerca e proposizione di poesie che avessero come riferimento alberi o arbusti è enorme. L’antologia è una opera monstre di più di mille pagine. Fra ricerca, selezione, progettazione e stampa avrai avuto la necessità di un impegno nel tempo estremamente lungo.

In diversi me ne hanno parlato in questi termini, come se si trattasse del lavoro di una vita intera. Ma non è esattamente così. È vero che nell’arco di quasi quarant’anni di lavoro, nel Centro e poi nella Fondazione Villa Ghigi, mi è capitato di cercare, accantonare, utilizzare qualche testo letterario che parlava di alberi e altri aspetti della natura che mi interessavano. E che ho usato non di rado in interventi, pubblicazioni, lavori vari, ma sempre con discrezione credo, qualche citazione letteraria. Vero anche che è capitato più volte di proporre ai bolognesi passeggiate ed escursioni nel Parco Villa Ghigi e in altri luoghi verdi della città in cui alle notizie di carattere naturalistico e storico si intrecciavano testi poetici (sugli alberi, sugli uccelli e altri animali, sui frutti, sulle fioriture primaverili ecc.).

Tuttavia, il vero innesco dell’antologia è stato, cinque o sei anni fa, il programma Un albero per te, che consente attraverso una donazione alla Fondazione di piantare un albero nel Parco Villa Ghigi (per i più svariati motivi: per ricordare qualcuno che non c’è più, per la nascita di un bimbo, per una laurea, per un matrimonio o semplicemente per il gusto di avere un “proprio albero”, che però è anche di tutti, in uno dei parchi più belli della città).

Durante le piantagioni, ne sono già state fatte più di duecento, io e una mia collega abbiamo da subito preso l’abitudine di raccontare qualcosa sulla pianta che viene messa dimora e io, in particolare, di leggere due o tre testi poetici sulla specie (e di lasciarne qualcuno in più ai donatori).

Così ho cominciato a cercarne in modo un po’ più sistematico e siccome non amo ripetermi in due o tre anni ho messo insieme un discreto repertorio di testi, spesso bellissimi. Mi sono abbastanza presto reso conto dell’enorme ricchezza di testi, osservazioni, spunti, riflessioni, storie, che dall’antichità a oggi, la letteratura ha prodotto sugli alberi.

Una sera ne ho parlato con Luca Sossella, che era già al corrente di questa mia consuetudine, ed è nata l’idea dell’antologia, incorniciata dalla frase “Mille pagine basteranno?”. Per dire che sin da subito eravamo consapevoli che non stavamo pensando a un libretto ma a qualcosa di più impegnativo. Poi ci ho lavorato, a fondo, per circa un anno, approfittando di quello che avevo già accumulato ma cercando e trovando anche tanto altro, inseguendo un sogno di completezza che è ovviamente impossibile da raggiungere ma arrivando, credo, a un buon risultato.

Qual era e qual è l’intento di questo lavoro?

Il primo, e più semplice, era quello di riunire nell’antologia i testi poetici che potevo trovare sui principali alberi e arbusti (e qualche rampicante) della flora italiana, i più comuni alberi da frutto e alcune specie ornamentali, di provenienza esotica, che però si ritrovano abbastanza comunemente nei nostri parchi e giardini. E possibilmente di trovare tracce letterarie dall’antichità sino ai nostri giorni, nelle letterature classiche, in quella italiana e in quelle europee, e poi, quando era possibile e aveva senso, anche in quelle di altri continenti dal Nordamerica e Sudamerica all’Oriente e così via. Naturalmente ci sono piante, come le querce, che compaiono sin dai testi più antichi e che hanno, si potrebbe dire, avuto da subito un ruolo da protagoniste e altre di cui si è scritto di meno e in tono minore. Ma le settantasei sezioni in cui è suddivisa l’antologia, per quanto diseguali in lunghezza e distribuzione temporale e geografica degli autori dei testi, mi sembrano contenere tutte elementi interessanti. E poi il libro nel suo insieme, si può leggere anche come un racconto a più voci del rapporto che l’umanità ha avuto nel corso delle epoche con gli alberi e, in sostanza, con il mondo naturale. Qui le sfumature, le considerazioni, le riflessioni, gli intrecci, i rimandi che si possono cogliere e seguire sono davvero infiniti.

Il volume supera le mille pagine di testo. Più che una antologia, verrebbe da definirla un “libro delle ore”, da aprire casualmente così da creare mappe interne. O da consultare come un libro sacro, anche.

Un’aura di sacralità gli alberi, per gli uomini, l’hanno avuta sin dai tempi più remoti, in particolare alcune specie, ma sacro è un aggettivo che non uso volentieri. Piuttosto è vero che La poesia degli alberi non è un libro da leggere dalla prima all’ultima pagina, come un romanzo (anche se niente impedisce di farlo, se uno vuole). Un libro d’ore è una definizione giusta. Si può leggere a partire dalle piante che più si conoscono o da quelle che incuriosiscono, dagli autori che più si amano, si può aprire a caso, lasciandosi sorprendere dal singolo testo di un autore di cui magari si ignorava l’esistenza; e da lì partire per percorsi di lettura che possono andare anche molto al di là dell’antologia. Non mi dispiacerebbe, a questo proposito, contribuire almeno un poco a far conoscere autori italiani e stranieri, recenti e meno recenti, che sulla natura hanno saputo e sanno scrivere con maestria, spirito di osservazione, spiccata sensibilità, vera passione.

Nell’introdurre alla lettura de La poesia degli alberi, scrivi che questa antologia è un lavoro finito. Da lettore, la vedo invece come un’opera aperta, che non ha realmente fine e che potrebbe impegnarti ancora e ancora.

Ho scritto che era un lavoro finito perché percepivo come un momento fatidico quello in cui dovevo necessariamente terminare la ricerca, considerare chiuse le introduzioni alle singole sezioni e consegnare tutto all’editore e all’art director, nella fattispecie Alessandra Maiarelli, che per inciso ha fatto un bellissimo lavoro, dalla copertina a tutte le mille e passa pagine interne. Ma certamente il lavoro non è (mai) finito, e qualche testo che si potrebbe aggiungere in un’eventuale nuova edizione che un giorno forse si farà lo sto accantonando. E poi sto concretamente lavorando a un’antologia sugli animali e ho ancora altre idee che mi girano per la testa.

Hai diviso l’antologia in settantasei sezioni, perché dedichi ognuna a ogni specie arborea che cresce sul territorio italiano (autoctona e non)?

In realtà, le settantasei sezioni sono a volte dedicate a una singola specie e altre volte a gruppi di specie dello stesso genere o anche di generi affini. Non sempre. Per fare un solo esempio, quando i poeti scrivono di una quercia, chiariscono se si tratta di una farnia, di una rovere, di una roverella, di un cerro e così via. Ci sono, come ho detto, i principali alberi e arbusti che si possono osservare in Italia, e certo che qualcuno manca all’appello, anche perché non ci sono testi significativi proprio su tutte le specie. E poi sulle specie esotiche presenti nel verde, dai parchi storici alle alberature stradali sino ai giardini familiari, ho necessariamente dovuto fare delle scelte; nell’introduzione credo di aver persino chiesto scusa a qualche pianta che non ho inserito e sulla quale pure avevo trovato qualcosa. Ma un punto da qualche parte bisognava metterlo, altrimenti davvero l’antologia non sarebbe mai finita.

I poeti, italiani e stranieri, le hanno “cantate” proprio tutte?

Come dicevo qualcosa non ho messo e qualcosa non ho trovato, anche perché forse non è stato (ancora) scritto.

Ti faccio un esempio, che può aiutare a chiarire come ho lavorato. Tra gli arbusti che avevo in mente di inserire c’era lo scotano (Cotinus coggygria), un arbusto (a volte un alberello) che fa parte della nostra flora e non è molto conosciuto. Ce n’è qualche esemplare anche sulle colline di Bologna, ma è più diffuso nelle Marche, ad esempio, o sul Carso e in Istria; in autunno le sue belle foglie tondeggianti assumono un meraviglioso colore rosso-aranciato. Su questa pianta, alla quale qualche autore (magari triestino o goriziano) fa qualche accenno, anche in prosa. I testi assolutamente più significativi sono quelli di Umberto Piersanti, che probabilmente conosci. Ne ha scritto più volte, perché è una pianta ben presente nei suoi luoghi di elezione (le colline intorno a Urbino, le Cesane, ecc.). Gli ha persino dedicato il titolo di una sua raccolta, L’albero delle nebbie, che è uno dei nomi comuni con cui è conosciuta la specie. Per cui la sezione dedicata allo scotano è tutta e solo di testi di Piersanti, un autore che scrive di natura in modo magnifico, peraltro. Ne è stato molto felice. Da allora ogni tanto ci sentiamo e ci facciamo lunghe, piacevoli telefonate parlando di poesia, piante, animali, luoghi che abbiamo visitato.

Qual è la specie preferita dai poeti e perché, a tuo avviso?

Se lo scotano sembra essere la specie di un solo poeta, direi che querce e ciliegi sono forse i due gruppi di piante su cui i poeti si sono più esercitati. Delle querce ho in parte già detto. Per gli antichi erano sacre. E poi sono le specie forse più diffuse, anche numericamente, nei boschi del nostro paese. E sono un simbolo di forza e longevità che è stato cantato e utilizzato in mille modi in letteratura.

C’è un passo di Ovidio, nelle Metamorfosi, in cui racconta di Erisìctone, empio re di Tessaglia, che fa tagliare un bosco sacro a Demetra, in cui spiccava una quercia immensa, e la dea lo punisce con una fame insaziabile che si impadronisce di lui e lo porta a dilapidare tutte le sue ricchezze fino a che non arriva a divorare se stesso. È un testo che si legge quasi con disagio fisico, ed è impossibile non vederci qualcosa dell’ansia distruttiva dell’uomo nei confronti della natura, che sembra non potersi mai veramente fermare, anche e soprattutto oggi.

Il ciliegio, invece, tra gli alberi da frutto è certamente quello che ha suggestionato più autor. In questo caso, oltre tutto, c’è una parte orientale della sezione che è all’incirca pari a quella occidentale per ampiezza, perché, per quanto si tratti di specie da fiore diverse da quelle che crescono da noi, non potevo ignorare la vastissima produzione, soprattutto giapponese, dedicata ai ciliegi, che raggiunge accenti davvero sublimi, soprattutto in riferimento all’Hanami, la tradizionale festa in cui i Giapponesi si riuniscono in rinomate zone del loro paese sotto gli alberi di ciliegio nel momento in cui petali dei fiori cominciano a cadere e a disperdersi (e già questa in sé non è una poesia?).

Come accennato prima, non hai antologizzato solo testi poetici. Hai inserito nello scorrere dell’opera dei lacerti narrativi. Perché hai deciso di tenere e proporre questi passaggi?

Nel tempo avevo accumulato anche testi in prosa e qualcuno, senza esagerare, l’ho inserito, dove mi sembrava che fosse utile a completare il ritratto della pianta o a far comparire nell’antologia un autore che, per vari motivi, mi faceva piacere che ci fosse. Ti faccio tre esempi. I primi due a proposito del gelso, che come sai è collegato con l’allevamento del baco da seta e l’industria della seta.

Mi sembrava interessante segnalare che Alessandro Manzoni lo coltivava nelle sue tenute agricole e che i Promessi sposi, il romanzo per eccellenza della nostra letteratura, ha parecchio a che fare con gelsi e bachi da seta. Renzo è operaio in una filanda e, nel lieto fine del romanzo, ne acquista una insieme al cugino (da perfetto lombardo che diventa imprenditore!). Sempre nella sezione del gelso, ho inserito un brano di Luigi Meneghello che in mezza pagina, in modo divertente ma esatto, dice tutto delle operaie delle filande (e della condizione femminile).

A proposito del larice, invece, ho inserito un brano, che è quasi una poesia in prosa, di Mario Rigoni Stern. Perché è un autore che sulla natura alpina ha scritto cose memorabili, e volevo che in qualche modo comparisse nell’antologia. Anche perché molti anni fa ho passato qualche ora con lui nella sua casa di Asiago ed è un bel ricordo.

Ma dalla prosa, che è un campo come puoi immaginare sterminato anche soltanto in relazione ad alberi, boschi, frutteti e così via, mi sono tenuto necessariamente lontano, per non finire in un mare dal quale sarebbe stato impossibile tornare (e per tenere fede al titolo dell’antologia).

Ogni sezione è preceduta da una introduzione-guida. Puoi raccontare perché hai deciso di usare queste “pause” fra le sezioni?

Mi è sembrato utile dare qualche informazione sulle singole piante, sulle varie specie eventualmente incluse nelle sezioni e anche sugli autori, non tutti notissimi, mescolando botanica, letteratura, storia, riferimenti al mio lavoro e a Bologna, anche, qualche osservazione e ricordo personale, curiosità e riflessioni suscitate dai testi, quasi per assecondare lo sviluppo dell’antologia. Con Luca Sossella ne abbiamo discusso e ci siamo trovati d’accordo che fosse opportuno per completare il libro e accompagnare i lettori dentro le diverse sequenze di testi.

Come hai costruito questa antologia? Voglio dire, la ricerca fatta ti ha portato a trovare testi di poeti che vanno dalla notte dei tempi alla contemporaneità. Ma è stata fatta sia sul cartaceo che via web? E se sì, quale dei due mezzi hai preferito usare maggiormente? E perché?

La ricerca è stata fatta in primo luogo e soprattutto sui libri (e sugli e-book, anche), con qualche puntata, in passato, nelle biblioteche, ma poi ho usato anche il web, certo, per scovare testi ma soprattutto indizi che potevano indirizzarmi verso autori e percorsi di ricerca interessanti. Ho utilizzato la mia biblioteca di poesia, che si è straordinariamente ampliata in questi ultimi anni (i libri non so letteralmente più dove metterli) e alcune di amici (in particolare quella, molto ben fornita anche di poesia contemporanea, del mio amico Salvatore Jemma). In proposito mi sembra di aver citato nel libro una vecchia canzone dei Sex Pistols: “Uso i mezzi migliori e uso tutti gli altri”. E questo più o meno ho fatto.

Come ti sei rapportato con la pulviscolarità delle pubblicazioni poetiche, con la loro costante introvabilità, soprattutto per quanto riguarda nomi meno conosciuti e case editrici minori?

Ho dato la caccia tante volte a testi che mi interessavano e quasi sempre sono riuscito, in un modo o nell’altro, a trovarli alla fine. Ma sono anche stato facilitato nel compito dal fatto che ci sono autori, italiani e stranieri, che di alberi e natura parlano volentieri e spesso con competenza e ce ne sono altri che, invece, non ne parlano affatto. Non faccio esempi, ma ce ne sarebbero.

Sui nomi meno conosciuti e sulle case editrici minori ho fatto quello che ho potuto, e certamente qualcosa mi sarò perso. Ma tutte le volte che ho trovato autori interessanti, anche poco noti, ho seguito i fili fino in fondo e sono stato più di una volta ripagato con belle scoperte. In ogni caso, come ti ho già detto, mi sono preventivamente e sinceramente scusato con tutti quelli, morti e viventi, che posso aver trascurato.

Per quanto riguarda gli autori stranieri è chiaro che mi sono dovuto basare largamente su quanto in Italia è stato tradotto e pubblicato, anche se in diversi casi, soprattutto dall’inglese, ho inserito testi inediti di autori che un po’ conosco e apprezzo, e che ho volentieri tradotto. E in altri casi, perché è piacevole e fa parte delle cose che ogni tanto mi capita di fare, ho dato una mia traduzione di testi già tradotti da altri, quando mi sembrava di poter offrire una versione più precisa e più aderente agli scopi dell’antologia o semplicemente più di mio gusto. Ma mi rendo conto che per quanto riguarda gli autori stranieri stiamo sempre parlando della punta di un iceberg. Io stesso, dai testi in originale che possiedo di autori inglesi, irlandesi o americani, avrei potuto aggiungere ulteriori testi inediti ma, come ho già detto, a un certo punto un lavoro del genere va chiuso, perché altrimenti il rischio è di non chiuderlo mai.

I poeti antologizzati ne La poesia degli alberi sono circa quattrocento. È più facile perciò chiederti se e cosa hai lasciato fuori e perché (anche se rientrava nel tema)?

A parte quanto ti ho appena detto, mi può essere capitato di non includere qualche testo, anche di autori classici o più recenti, magari molto noti, perché mi sembrava più debole o ripetitivo rispetto ad altri che avevo già inserito.

Ho sempre cercato di essere oggettivo e imparziale, senza farmi troppo condizionare da nomi, onorificenze, appartenenze, gusti personali; di proposito, ad esempio, negli accenni sugli autori, non ho mai fatto riferimento a premi Nobel e altro, per non creare involontarie gerarchie. Qualcuno l’ha notato e me l’ha riconosciuto e questo mi ha fatto molto piacere.

Prendila come una battuta ma non è solo una battuta: ho cercato di servire gli alberi e la poesia, nient’altro.

C’è stato un testo fra quelli antologizzati che ti ha sorpreso più degli altri?

Tantissimi, in realtà. Ho riscoperto e riassaporato la grandezza incommensurabile di un autore come Ovidio, che pure amavo fin da ragazzo (mi ero spinto anche a prenderlo affettuosamente in giro in un testo giovanile che era un piccolo trionfo dell’allitterazione e cominciava così: “Invidio l’esilio di Ovidio…”). Oppure la bravura inebriante di Giovambattista Marino, di cui ho inserito uno splendido testo su Orfeo e gli alberi all’inizio di tutto, che in un certo senso richiama, per quanto a rovescio, l’operazione che ho provato a fare nell’antologia. Marino a un certo punto immagina che gli alberi arrivino da tutte le parti per rendere omaggio a Orfeo, solitario e disperato dopo la perdita di Euridice, e di ognuno, una quarantina di specie, dà in pochi versi una pertinente descrizione; nell’antologia io ho invece messo un po’ di poeti intorno a ogni albero; a volte quasi una folla, altre volte, come ho già detto, pochi o anche uno soltanto.

Ma se dovessi scegliere un testo mi verrebbe da citare quello di un autore inglese dell’Ottocento, un sacerdote cattolico vissuto in prevalenza in Irlanda, Gerald Manley Hopkins, che ha scritto un testo bellissimo su un filare di pioppi tremuli abbattuto nel 1879; un testo che dovrebbe essere fatto imparare a memoria a tutti quelli che, a vario titolo, dovunque nel mondo, mettono le mani sul territorio.

Qual è l’autore più giovane che hai antologizzato? Cosa ti ha colpito per far sì che tu lo inserissi nell’opera?

Tra gli italiani ci sono diversi autori degli anni Cinquanta e qualcuno degli anni Sessanta. Non proprio giovanissimi, dunque. Il più giovane mi sa è Tiziano Fratus, l’Homo radix, come ama definirsi, che è nato nel 1975 e in questi anni ha scritto numerosi libri, in prosa, sui grandi alberi, di cui ho inserito nell’antologia un paio di poesie, una sul bagolaro; qualche mese fa, al Kilowatt (Giardini Margherita), mi è capitato di presentare insieme a lui il suo ultimo libro, Giona delle Sequoie, tutto dedicato ai giganteschi alberi della California.

Ma l’autore in assoluto più giovane, ho visto adesso, è una berlinese, Nadja Küchenmeister, che ho pescato in un’antologia e che è nata nel 1981.

Ma i giovani poeti, per quel che ti è dato sapere grazie al tuo lavoro di ricerca per La poesia degli alberi, scrivono ancora poesie che hanno le specie arboree come soggetto? Hanno cioè una percezione simbolica, concreta, metaforica di questa grandiosa costruzione della natura?

Se per giovani poeti intendi quelli delle ultime generazioni, che hanno l’età che avevamo io e te e altri quando abbiamo cominciato a scrivere in modo consapevole e, magari, abbiamo conosciuto Roversi, purtroppo non ti so rispondere, perché ho una conoscenza molto limitata di quello che stanno scrivendo. E un po’ mi dispiace.

Mi verrebbe da pensare che il tema degli alberi e, più in generale, il mondo naturale e l’ecologia in qualcuna delle loro voci dovrebbero essere rappresentati. Ma davvero non lo so.

Nei poeti più giovani che ho inserito nell’antologia – ma come abbiamo visto è una definizione piuttosto relativa, direi di sì e mi vengono da fare, un po’ alla rinfusa, i nomi di Pierluigi Cappello, Mario Benedetti, Claudio Damiani, Mariangela Gualtieri, Annalisa Manstretta, Michael Donhauser, Fabio Pusterla, Jan Wagner, Kathleen Jamie.

Invece non ti sei autoantologizzato. Al netto di una scelta encomiabile, viene da chiederti se tu hai mai composto un testo poetico che avesse una specie arborea al suo centro…

Qualcosa sugli alberi ho scritto e ancor di più sugli animali, soprattutto gli uccelli. Persino nel mio primo libro, Radio dei giorni di pioggia, si parlava abbastanza diffusamente di alberi (anche se in una chiave piuttosto metaforica) e mi pare che il mio alter ego nel libro (s.) a un certo punto si proclamasse “re degli alberi, re della terra con alberi”. Ma non mi sembrava proprio il caso di infilare anche me stesso. Non si fa.

Il libro è dedicato a due personaggi che hanno segnato la tua vita in positivo: Roberto Roversi e Delfino Insolera. Cosa c’è di loro nella tua decisione di creare un’opera così unica nel suo genere?

C’è molto di entrambi, al di là dell’affetto e della riconoscenza che conservo per tutti e due, in parti uguali, perché davvero sento come un privilegio aver avuto l’opportunità di stare a contatto con loro.

Di Roberto c’è la poesia, sopra ogni cosa, quella disinteressata e irriducibile, in grado di esprimere ogni idea, pensiero, sentimento e di illuminare ogni sfumatura e angolo del mondo.

Di Delfino la profondità di sguardo illimitata, la visione impeccabile, il metodo di lavoro che non si spaventava di fronte a nessuna impresa.

Nell’antologia, naturalmente, c’è solo un piccolo seme di tutto questo; da entrambi ho cercato di prendere (apprendere) qualcosa e di farlo costantemente agire nel mio impegno quotidiano. E questa antologia, che unisce poesia e natura, quello che sono e il lavoro che ho fatto per buona parte della vita, sono abbastanza sicuro che sarebbe, magari per motivi non sempre coincidenti, piaciuta a entrambi. La dedica era un abbraccio.

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