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Mark Lanegan. Sing backwards and weep

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Quanto può durare la “stagione all’inferno” vissuta da una singola persona? E, una volta passata (se effettivamente è lecito dire così), come raccontarla senza indulgere in una certa compiacenza da “superstite apparentemente superdotato” alla maniera di molte rockstar col vizio dell’autocelebrazione su carta?

Se volete trovare una risposta sincera a queste domande e siete convinti di avere un certo stomaco per le situazioni estreme, non potete prescindere da questo “Sing backwards and weep” di Mark Lanegan (Officina di Hank, 2021, pp. 371, € 20), un memoir a lungo atteso non soltanto dai fan dell’oscuro cantante di Ellensburg, ma, data l’unicità del personaggio e dei suoi trascorsi, un po’ da tutti gli appassionati di musica e di editoria musicale.

In un lungo, doloroso flashback che va dalla (dura) fanciullezza vissuta in una provincia americana che nulla sembra avere in comune con le luci e i lustrini a cui siamo abituati a pensare quando si parla degli Stati Uniti, fino alla tragica scomparsa dell’amico del cuore (e indimenticato frontman di Alice in Chains e Mad Season) Layne Staley che chiude il libro con una stilettata impietosa e tranciante, l’autore di “Whiskey for the Holy Ghost” e “Field Songs” ci trascina nel vortice di una quotidianità allucinata dove vizio, dipendenza ma soprattutto rabbia la fanno da padroni incontrastati. E, diversamente da molti altri suoi colleghi e predecessori, non lesina mai né sulla crudezza dei particolari, né tantomeno nella condanna della sua cattiva condotta. Ciò che rende particolare quest’opera è la volontà da parte di chi racconta di non venir mai meno alla nuda verità dei fatti, anche quando è in grado di porre chi l’ha vissuta sotto una pessima, pessima luce. Il ritratto che ne viene fuori è dunque estremamente sfaccettato e dà piena contezza di un universo interiore fatto di devastazione e tristezza inesorabili, per combattere le quali niente, nessuna soluzione sembra essere mai adeguata. Lanegan si “offre” al lettore senza alcuno schermo protettivo, senza alcun tentativo di captatio benevolentiae: ciò che dobbiamo sapere sul suo conto, è ciò che lui ha precisamente intenzione di raccontare. Anche quando si tratta di far conoscere i particolari più miserabili della vita di un tossicodipendente o gli abissi più ignominiosi di una crisi d’astinenza. E quel che ne viene fuori è davvero molto toccante, sempre privo di “infiocchettature” di qualsiasi tipo. Per chi ha una certa dimestichezza con la letteratura di Burroughs, Selby jr o Bukowski, amare “Sing backwards and weep” sarà istantaneo anche senza conoscere una singola canzone dell’ormai vasta e meravigliosa produzione di Lanegan. Vi ritroverà all’interno la stessa, parimenti, romantica e feroce urgenza di dire, strappando a gesti bruschi qualsivoglia velo di condiscendenza e affettazione per consegnare un dono avvelenato di verità e autentica, sanguinante sovversione.

La lettura di queste pagine è poi estremamente stimolante anche per avere un’idea più disincantata su quella che, ad oggi, può essere considerata l’ultima vera scena che la musica rock abbia prodotto: la Seattle da lui “cantata” è, infatti, quella che ha davvero pulsato al di fuori delle entusiastiche cronache giornalistiche del tempo; è quella sbirciata non dal buco della serratura da parte di un curioso qualunque, ma quella reale che bruciava all’interno degli squallidi soggiorni e delle anonime camere d’albergo dove gli eroi di una generazione consumavano la propria, dolorosa parabola tra pipe di crack ed eroina, tra oppressioni e sprofondi emotivi insostenibili, dove l’incanto delle sette note e la felicità di avercela fatta, lasciavano spazio ad un senso di ingabbiamento e frustrazioni senza apparente possibilità di redenzione. Ecco allora un vasto catalogo di personaggi assai familiari a tutti gli amanti del grunge (e non solo) letteralmente smascherati nella loro sconcertante inadeguatezza alla vita e una serie di aneddoti che ci mostrano, a noi fan che troppo spesso ci limitiamo a “deificare” i nostri eroi, quanto sia dura per chiunque riuscirla a sfangare.

Il libro di Lanegan è una deflagrazione che non lascia appigli, esplode a regolare intermittenza senza far mai prigionieri e mostrando senza misericordia (e non solo metaforicamente) la purulenza e l’orrore di certe ferite che non si sono cicatrizzate e che forse non lo saranno mai. Eppure, perché anche questo bisogna scrivere, è nondimeno una manifestazione di sentimenti e delicatezze piena di dignità da parte di un sopravvissuto che è affondato con tutto il corpo, fino alla punta dei capelli, nella melma del destino e dell’autodistruzione; di un uomo amato dai suoi amici e riconosciuto nel suo talento infinito da numi tutelari delle sette note come Johnny Cash, eppure costretto ad impegnare i suoi pantaloni e a dormire all’addiaccio come un homeless qualsiasi per andare avanti e tornare a respirare.

Inutile girarci attorno: “Singbackwards and weep” vi farà male, molto male. Se però credete, come ammonisce Eschilo da quasi duemilacinquecento anni, che il vero insegnamento non possa prescindere da un autentico dolore, abbandonatevi pure senza starci troppo a pensare.

Magari non ne uscirete migliori, ma avrete forse imparato a guardare diversamente un sacco di cose.

E non è poco, non è affatto scontato.

Buon viaggio all’inferno (e ritorno)!

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