Patrizia Cavalli, hai letto il suo nome sotto una coppia di versi, tanti anni fa, nel bagno del tuo liceo. Una scrittura minuta, composta, probabilmente femminile: ma d’amore / non voglio parlare / l’amore lo voglio / solamente fare. Un pennarello verde, di quelli col tappo a rigoline: hai immaginato la mano di un’adolescente che lo teneva tra le dita, si appoggiava al freddo quadrato della mattonella e scriveva piano: l’epigramma che l’aveva colpita, la firma di chi l’aveva scritto. Pa-tri-zia-ca-va-lli. Da allora sono passati quindici anni, tutto è cambiato, anche tu: ora puoi chiamare l’Einaudi e chiedere un contatto con quella poetessa, scriverle e proporle un tuo ritratto per Satisfiction, lei può dirti di sì ed accoglierti a Roma, a campo dei fiori, nel cuore della città, dove vive da tanto tempo. Il suo campanello è l’unico tra quelli del palazzo dove è scritto solo un cognome, il suo: negli altri, regolarmente, nome e cognome. Sorridi mentre lo suoni, pensando che, per quello che hai letto, questa donna ha sempre lavorato sottraendo parole, i suoi testi sono emersi da lei come statue essenziali, attraverso, soprattutto, l’eliminazione netta di blocchi massicci di parole in eccesso. Eliminare, ti dirà più tardi, è, esattamente come scegliere, una forma di creazione. Vive in una casa dai toni caldissimi, ricoperta da tappeti d’ogni tipo e illuminata da lampade tutte diverse, firmate da un artista di cui non ricordi il nome, ovunque sono appesi quadri, stampe, foto in bianco e nero e piccoli oggetti singolari. I muri, come ti fa notare mentre ti conduce nel suo studio, sono irregolari, dolci, e non hanno spigoli. Chiedi un bicchiere d’acqua, te lo porta e si siede in una poltrona azzurra a righe bianche, tipo pigiama da uomo, molto distante ma esattamente di fronte a te. Cominci da lì, è un’idea. Le dici che scrive un libro più o meno ogni dieci anni, che evita accuratamente tutte le televisioni, che, lo sai per via diretta, da anni la invitano nelle trasmissioni culturali più prestigiose, declina richieste d’interviste di testate nazionali: di lei, aggiungi, si dice sia una donna indifferente alla visibilità, che non ambisce ad un successo superiore a quello, internazionale, che già ha. E’ così, si riconosce? Ti sorride benevola, come si farebbe ad un bambino che è troppo piccolo per sapere come va il mondo, e quindi pone domande inappropriate. Quando mi dicono che ho successo, risponde, mi chiedo se stanno parlando di me. Questo non significa che io sia una persona umile. Fa un gesto con la mano, nella luce blu del pomeriggio. Non è detto che io abbia sempre delle opinioni. Ci devo pensare. Si accende una sigaretta. Che vantaggi potrei avere, se apparissi? Le dici che potrebbe vendere di più, anche se sai che vende molto, e che tutti i suoi libri continuano a ristamparsi da molti anni, aggiungi che potrebbe aumentare il suo numero di lettori. Il numero, ti dice, non è cosa che mi interessi. Cerco dell’altro. Per me ha sempre contato il parere di pochi. Elsa Morante un tempo diceva che ero un poeta. Ero molto giovane, questo non significa felice, beninteso, e quella per me era la massima gratificazione. Anche pubblicare, poi, è stato meno. Obietti che però potrebbero aumentare anche di molto i suoi ammiratori. Ma neppure l’ammirazione le interessa. Gli ammiratori sono dei ricattatori a ben guardare, ti sorride, ti ammirano perché vogliono essere a loro volta ammirati. E poi, aggiunge pensierosa, l’ammirazione esclude l’eros. Ti sembra il contrario, e glielo dici. Vede, lei, come molti altri, apprezza ed ammira il mio lavoro: mentirei se dicessi che la cosa non mi fa piacere, ma non è questo il punto. Sono io, che voglio essere amata. Resti senza parole, te le ha tolte di bocca. Giri le pagine del tuo blocco, non ti ritrovi più, ti ha disorientato. Mentre cerchi il segno le dici che molti autori seducono proprio attraverso le loro opere, ma lei ti risponde che quello è un esercizio di potere, e dunque non le interessa. Le chiedi se pensa mai ai suoi lettori. Ti dice di no, che quando scrive non pensa neppure a se stessa. E’ la parola, dice, che si rivela, che spinge così tanto da dovere essere scritta. Le cose in poesia sono esposte alla luce, quasi teatralizzate. Le chiedi di che cosa scrive. Parla spesso della felicità, di quando è impedita. Dice di essere una persona nata per la felicità: ma che questa non dipende, secondo lei, né da cose né da persone: è una questione fisiologica, quasi nervosa. La sua prima raccolta si intitola le mie poesie non cambieranno il mondo, sembra quasi alludere al contrario, ti è sempre parso così. Crede alle parole? Come si fa a scrivere se non si crede in questo? Le parole hanno un potere assoluto. In molti suoi testi allude alla soppressione dei sentimenti, all’abbassamento del volume delle passioni. Ma parlo degli altri! Ride. Credi anche tu, che parli degli altri, lo puoi intuire, se avessi coraggio diresti che lo puoi anche sentire. Che cosa pensa dell’amore? Non è quello che tutti credono, un quadro idilliaco, di felicità: è la fine del possibile, l’inizio del necessario. Ma allora, dici tu, è un limite. Sì, lo è, ma impedisce la disgregazione del sé, e dà inizio alla sua fioritura. In una sua poesia, aggiungi, scrive che la vita è questi mazzi di fiori / non portati, poi in un sol colpo / in morte consegnati. Spesso è così, dice. La chiamano telefono. Una scrittrice che anche tu conosci. E’ passato del tempo. Ti alzi e ti congedi. Ti accompagna alla porta. Dove va? A Venezia. Le stringi la mano. Scendi le sue scale a volute come le ruote di un’elica. Fuori, Roma oppone tutte le sue luci al buio. Tutto è possibile. Patrizia Cavalli non è un nome. Eppure si potrebbe, ha scritto in una sua poesia, uscire, varcare, raggiungere. Lei, ne sei sicura, ha potuto.
Giulia Belloni