Ogni libro, porta ad un altro libro. Per anni ho scelto le mie letture quasi solo in questo modo. Era come seguire un sentiero che altri avevano percorso, salire la strada che loro scendevano, calpestare altre orme.
Ci sono tanti modi per sentirsi parte di una continuità, leggere è uno di questi.
Elio Pecora è un poeta, uno scrittore. Napoletano, si trasferisce a Roma alla fine degli anni sessanta. Va in Germania, torna a Roma.
In questo suo Tre Monologhi, Penna, Morante, Wilcock, edito da Il ramo e la foglia edizioni, completato da una prefazione di Marco Lucchesi,
Pecora fa un viaggio nel suo passato raccontandoci i suoi amici. Questi tre monologhi sembrano lettere con il triplo mittente: l’amico scomparso, di cui si racconta la vita; il lettore che viene coinvolto in queste confessioni e Pecora stesso, che gode ancora di una compagnia.
Questo mi è sembrato ancora più vero con il primo e l’ultimo dei tre monologhi, quello su Penna e sulla Morante, meno con Wilcock.
Non conosco i rapporti intessuti, gli affetti, ma la sensazione di tenerezza che si avverte nel racconto del Poeta Penna traspare con commovente chiarezza.
Pecora si aggira nell’intimità del poeta con discrezione e illustra con chiarezza le sue vicende personali. Qualora si volesse approfondire la personalità di questo poeta recluso, scoprire l’uomo nascosto nell’opera, questo monologo tornerà utilissimo.
Il quadro è chiaro in pochissime pagine. Dalla giovinezza alla morte, il rapporto conflittuale con i genitori, la mamma avara, il padre dissipatore.
Penna si mostra nudo al centro di una stanza vuota, chiusa. Per colpa della piorrea perse tutti i denti, questa immagine mi pare chiarificatrice più di ogni altra per comprendere certi lati della sua personalità. Non volle mai sostituirli con una dentiera, restando disarmato contro il tempo che lo consumava povero, solo.
Il monologo di Wilcock mette in evidenza un uomo non troppo diverso nelle soluzioni. Scontroso, di carattere difficile, ugualmente solitario. Il J. Rodolfo Wilcock che ci consegna Pecora è un uomo che odia il mondo al punto da volersene inventare sempre uno nuovo, una versione fantasiosa, grottesca e spaventosa.
Come l’amico Borges fu abilissimo falsario e come Silvina Ocampo, con la quale aveva discusso di letteratura a Buenos Aires, era capace d’inventare strani mondi a partire dalle cose piccole della vita, osservando le crepe minuscole, le imperfezioni che rendono tanto curiosa la banalità.
Si distanziò, però, da tutti questi perché non sapeva appartenere. Visse eremita, vicino Velletri, in una campagna che calpestava con gli stivali di gomma.
L’autore de Il libro dei Mostri; La Sinagoga degli iconoclasti e Lo stereoscopio dei solitari, era un funambolo che camminava sulla corda, fluttuando a mezz’aria immaginando di volare sopra un mondo che aborriva. L’altitudine, in cui si era rifugiato come un uccello sgraziato, gli regalava una visione distorta, degli altri, che si divertiva a raccontare.
Rodolfo Wilcock amò i cani più delle persone, come successe a Céline con i gatti, e a tutti quelli che dell’uomo, dell’umanità, farebbero volentieri a meno.
Singolare il racconto che, della sua morte, fa Pecora. Wilcock fu trovato morto nella sua casa, folgorato da un attacco di cuore. Venne trasportato legato sopra un materasso. Deposto nella bara, aveva un filo di sangue lungo il mento. Morì il giorno in cui rapirono Moro. Una tragedia tanto grande, coprì la sua che divenne molto piccola al punto che nemmeno un fiore fu possibile portare.
Di Elsa Morante, ci racconta la solitudine, la malattia. Il suo è il monologo più toccante, quello che meno si sofferma sugli episodi della vita e più sull’interiorità.
L’amore per Moravia è appena accennato. Non a caso, questo monologo s’intitola Nello specchio di Elsa.
Pecora si nasconde, quasi, dietro il riflesso cercando di spiegare cosa vede Elsa di sé. La donna che era, che è diventata. Contiamo i suoi giorni contando le rughe.
Questi monologhi sono urla silenziose dentro una stanza chiusa. I personaggi sono rassegnati ad aspettare la fine del tempo, a fare i conti con quanto è già accaduto, quanto dissipato.
La letteratura italiana è ricca di questi personaggi che troppo colpevolmente vengono dimenticati. I loro libri restano nei fondi dei magazzini, a scuola, insegnanti che leggono poco, non ne parlano. Finiamo a guardare altrove, a cercare lontano quanto di eccezionalmente bello è vicino.
C’è una letteratura italiana della seconda parte del novecento che non è solo Pasolini, Pavese, Montale o Calvino, per quanto grandissimi furono questi. Esistono poeti come Caproni, Sanguineti, Luzi; scrittori come Berto, Bufalino, Flaiano, di cui si parla sempre troppo poco. Ne potrei citare altri, penso a Manganelli, a Landolfi…
Libri come questo ci aiutano a riscoprire, a ritrovare il gusto, di qualcosa di bellissimo che parla di noi, della nostra storia, molto più di quanto non facciano gli americani.
Pierangelo Consoli
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Elio Pecora, Tre Monologhi, Il ramo e la foglia edizioni, 2021, pp. 80, euro 13.