Che del nucleo storico dei Guns and Roses, Izzy Stradlin fosse non un semplice comprimario dei più appariscenti Axl Rose e Slash ma la vera e propria colonna portante (perlomeno da un punto di vista strettamente creativo), si può dire che ogni vero fan del gruppo lo abbia sempre saputo e sia pronto a riconoscerlo al di là delle proprie eventuali preferenze. Quel che invece, da ormai trent’anni, rimane, se non un mistero insoluto quantomeno una matassa piuttosto difficile da sbrogliare -date anche le dichiarazioni contrastanti al riguardo rilasciate nel corso del tempo dai vari membri della band- è l’esatta comprensione di quali furono le effettive dinamiche che portarono alla fuoriuscita del chitarrista di Lafayette.
E adesso, finalmente, abbiamo anche la “versione ufficiale” di Izzy, che in “Dust n’ Bones” (Castello, 2021, pp: 288, € 18), scritto da Jake Brown e tradotto in italiano da Giuseppe Ciotta, ritorna sulle motivazioni che determinarono quello che, almeno negli ultimi sei lustri di rock, può essere considerato come lo split più clamoroso che si ricordi.
Va però sottolineato, e prima di ogni cosa, che questa preziosa autobiografia è innanzitutto il racconto, appassionato e privo di manierismi, dell’avventura umana e musicale di uno degli artisti più influenti che la storia (recente) del genere ricordi. La promessa è quantomeno doverosa, perché la ridda di pettegolezzi e le infinite “fioriture” sorte intorno all’uscita di Stradlin dal gruppo losangelino hanno sottratto non poca attenzione al pieno riconoscimento dell’importanza della sua figura. Questo libro, invece, ci restituisce, e a tutto tondo, il ritratto di un eroe della sei corde in grado di marchiare a fuoco un’epoca e di trasformarsi in un punto di riferimento per milioni di ragazzi e colleghi. Fatto tanto più notevole se si considera la provenienza estremamente “provinciale” all’interno degli Stati Uniti, nonché la sua natura sfuggente e invincibilmente riservata che, per convenzione, mal si attaglierebbe alla sua aura ormai poco meno che leggendaria.
Partendo dalla gioventù scapestrata (ma neanche troppo rispetto a quella di tanti altri colleghi) nella natia Indiana e dall’amore smisurato per Rolling Stones ed Aerosmith, il resoconto della “timida epopea” di Stradlin, si dipana in senso cronologico fino ad arrivare ai giorni nostri, regalandoci, finalmente, un’immagine senza filtri dell’autore di “Patience”, “My Michelle” e tanti altri successi. E così, oltre a tornare nella famigerata Hellhouse (il microscopico magazzino dove i cinque Guns and Roses abitarono e suonarono prima di sfondare) e nella folle Los Angeles di metà anni Ottanta tutta eccessi e sregolatezza, queste pagine ci conducono in una dimensione ben più domestica e soffusa della vita del protagonista. Una dimensione fatta di continui viaggi attraverso l’America e nel mondo, del suo amore per le immersioni, dei teneri rapporti con Angela Nicoletti o con la prima moglie Annica Kreuter. E poi, naturalmente, c’è la musica. Non soltanto quella epocale e da folle oceaniche dei Guns and Roses, ma anche quella più “easy” composta e vissuta nella lunga carriera successiva, con gli JuJu Hounds o da solista. Ed è proprio nella descrizione dello sviscerato, insuperabile amore dimostrato da Stradlin nei confronti del rock, del suo essere, anche una volta divenuto una star, prima di tutto un fan, che capita di imbattersi in alcuni dei passi più belli del libro. La descrizione delle emozioni provate durante il processo creativo delle canzoni o del lavoro in studio con tanti grandi musicisti si consegna al lettore ammantata di una sorta di deliziosa purezza: sembra quasi di essere lì con Stradlin, infatti, a bearsi dell’inarrivabile incanto prodotto da una sequenza azzeccata di accordi o della felicità di poterli suonare davanti ad un pubblico rispettoso e non infoiato dall’idea di trovarsi davanti la grande rockstar.
Va da sé, poi, che in questo contesto il buon Stradlin non tralasci di ritornare anche sulle pagine più buie della sua esistenza: la tossicodipendenza e le dure battaglie affrontate per superarla, la lotta contro la povertà e la miseria (anche quella morale) combattuta prima di sfondare e, ça va sans dire, il suo travagliato rapporto con l’amico-nemico Axl Rose, contro il quale il nostro si guarda sempre bene dal lanciare strali troppo avvelenati. Quel che viene fuori da “Dust n’ bones” sembra essere sempre permeato da una ragionevole ragionevolezza, da una volontà di difendere sì a spada tratta un proprio punto di vista, ma senza acri rigurgiti di biasimo. E questa prospettiva in qualche modo sempre rilassata, molto umana, non può che spingere il lettore a familiarizzare con la “causa” del buon Izzy, con la sua etica del lavoro e del ruolo sempre molto pronunciata, col suo costante rifiuto a cedere a certe lusinghe dello status per mantenere accesa la fiamma della propria vocazione. Insomma, per tutti gli amanti dei Guns e del rock in generale sarà molto difficile non provare simpatia (e amaro rimpianto per tutto quello che non è più stato dopo la sua uscita dalla band) per questo ragazzo, che il tempo e i soldi e la fama non hanno poi reso tanto diverso da quel giovanotto allampanato sbarcato a Los Angeles con una valigia piena di sogni e tanto entusiasmo.
Probabilmente, insieme a quello di Steven Adler uscito qualche anno fa, il miglior memoir della terribile “famiglia” delle Pistole e delle Rose.
Consigliatissimo.