Anita (l’esordiente Nora Stassi) vive con suo padre (invece un volto noto del nostro cinema, Luciano Curreli) in una casa semplice con una bellissima terrazza al posto del tetto, come capita nei posti di mare.
Vive nell’entroterra dell’Ogliastra, in provincia di Nuoro, nella Sardegna sud-orientale, ha diciassette anni, non sembra andare a scuola: è un’inserviente d’albergo. Non la vedremo mai con altri coetanei se non la sua collega (Rose Aste) e brevemente; solo con suo padre, il nonno (Piero Marcialis), lo zio (Michele Dr. Dre Atzori) e la zia acquisita (Laura Mura). Dopotutto non sembrerà una stranezza.
“L’Agnello” è un film sardo molto particolare, ha un cast interamente composto da attori sardi, ed è stato presentato qualche giorno fa all’edizione numero #5 del Festival Fuori Norma alla Casa del Cinema di Roma, dove ho potuto fare una chiacchierata con l’autore, Mario Piredda, classe 1980, sassarese, a cui ho chiesto subito di parlare della genesi di questo film: la storia prende infatti spunto dalla denuncia di un fatto reale, di cui sono vittima e succubi le popolazioni sarde, ossia che la maggior parte del demanio militare italiano (circa il 60%) si trova in Sardegna e che da sessant’anni in Sardegna, complice la presenza di varie basi Nato di cui ne restano al momento due molto grandi, vengono testate nuove armi, tra cui armi all’uranio impoverito, e insomma… a partire da questo dato di fatto con cui i sardi sono costretti a convivere, l’autore ha deciso di narrare una storia.
E insiste Piredda, che è importante si tratti di una storia, e non di una tesi, e infatti guardando il film, i militari, con la loro presenza incombente, sono delle incrinature tangenziali – quelle stesse incrinature che subisce la popolazione locale – sono estranei alla narrazione vera e propria: vediamo questi militari ogni tanto, percepiamo la loro cupa presenza ma non entrano nelle vite dei protagonisti, e neppure nelle loro parole (perché per gli adulti sono pressoché ineluttabili, solo Anita ne parla e si ribella, “quanto li odio quelli” la sentiamo dire alla loro prima apparizione a bordo strada): sono degli incidenti della narrazione, perché in Sardegna “tutt*” cercano di vivere nonostante la loro presenza.
Eppure il padre di Anita ha una leucemia, come l’aveva avuta e di cui era morta la madre, probabilmente causata dall’esposizione a qualcuna delle radiazioni comportate dalle armi testate, dagli esperimenti, dalle esercitazioni militari. Ma c’è qualcosa o qualcuno a cui chiedere riparazione?
Questa storia familiare (padre/figlia/nonno/zio) antica e moderna, un nucleo familiare estremamente moderno, per quanto i legami siano antichi… e abbia un’ambientazione rurale – non ha nulla di antiquato o folklorico, hanno anzi tutti i personaggi un’immagine e uno stile che definirei punk – i primi pensieri corrono al cinema del Nord Europa, Kaurismaki, persino Fassbinder – la protagonista visivamente ricorda Christiane F. con questa lunga chioma di capelli rossi che a volte sembra vivere di vita propria — c’è una scena dove la vediamo da dietro, ha i capelli raccolti a coda che ondeggiano come il ruggito di un leone, sono delle fauci, sono dei personaggi anche questi capelli.
Quindi ecco… c’è questa Sardegna paesaggistica, all’apparenza incontaminata (ehm) — la città si vede soltanto una volta, dall’alto — non che sia negata — quando il padre è sul tetto dell’ospedale, e spessissimo ci troveremo nelle stanze e nei corridoi d’ospedale, ma per la più parte siamo nella Sardegna dei pastori (come è pastore il nonno di Anita, anche per questo il titolo “L’agnello”) di prati e e di monti… ma questo non la rende arretrata, né la rende “superata” o tantomeno bucolica, anzi: è semplicemente il luogo della narrazione; e sentiamo questo linguaggio estremamente aspro e asciutto – tutto il film è recitato in lingua sarda e sottotitolato – che sembra più moderno dell’italiano: mi dava l’idea, durante la visione, di essere una lingua più capace di descrivere a livello sonoro il contemporaneo, una lingua parlata da personaggi, anche anziani — come il nonno e come lo era stata la protagonista (Giusi Merli, vista anche ne “La grande bellezza” nella parte di Madre Teresa) del cortometraggio precedente, vincitore ai David, di Piredda, “A casa mia” — come se fosse uno slang metropolitano… e questi “anziani” che sembrano dei personaggi di Fassbinder, delle figure che si inseriscono spazialmente nella geometria degli ambienti, in maniera cool, street, e sono belli da guardare, e non “anziani” nel senso di allora meno interessanti né tantomeno patetici – sono figure all’avanguardia. Come non è patetico il padre malato, mai.
Anche l’autore dice di ispirarsi e di amare il cinema nordico, soprattutto cita un film islandese, “Rams – Storia di due fratelli e otto pecore”, di Grímur Hákornason (premiato a Cannes nel 2015, sezione Un certain regard), dicendo che, dopo averlo visto, sapeva che non includerlo nella sua visione sarebbe stato difficilissimo.
E questa asciuttezza della lingua si ripercuote anche nello stile di scrittura, terribilmente scarno — “omit needless words” mi diceva come monito il mio professore di università: non mettere parole inutili. E un’altra massima delle scuole di scrittura era “show don’t tell”… mostra, invece di descrivere. La sceneggiatura de “L’agnello” spesso riesce a creare una struttura narrativa anche molto densa senza neppure un dialogo, solo attraverso le azioni, i gesti, gli sguardi, i movimenti dei personaggi, e le parole che vengono dette sono tanto rade e necessarie che quasi le aneliamo, e molte – come staffilate – ti rimangono naturalmente in testa, come incise nella memoria.
Non parlar per niente è un principio molto sardo, dice Piredda.
“L’agnello” ha vinto il premio Suso Cecchi D’Amico nel 2020 per la Miglior Sceneggiatura, scritta da Piredda con Giovanni Galavotti, e il film, come il suo cast e crew, ha fatto talmente incetta di premi che elencarli tutti sarebbe complicato.
Anche il lavoro sul suono, grazie al gioco dei vuoti e dei pieni è propedeutico alla creazione di tanti piccoli climax: quando arriva, la musica si sprigiona dalle immagini come una piccola esplosione, musiche curate da Marco Biscarini, che ha spesso lavorato con Giorgio Diritti, qui alla prima collaborazione con Piredda.
E la scelta del sardo non è un accessoria, e dà scacco matto probabilmente al doppiaggio: compenetra storia, stile, immagini, gli attori stessi (in questo sì un omaggio all’isola) e ce n’è bisogno da un punto di vista estetico e narrativo.
Tutto questo… ribadisce Piredda, per narrare una storia, la storia di Anita, che l’autore ha cercato, dice, “in lungo e in largo per due anni, per tutta la Sardegna” — e in base a dove l’avrebbe trovata, lì sarebbe stato ambientato il film — , non solo attraverso i casting, ma anche per strada, tra la gente… “e poi,” dice, “l’ho trovata in un bar, l’ho vista! ed era lei, nell’aspetto, nello stile… e le ho chiesto se avrebbe voluto fare un film, e lei ha risposto ‘ok, perché no’, e poi si è presentata al casting con un vistoso tatuaggio sul viso, e io ero furioso, perché non mi immaginavo la mia protagonista con un tatuaggio in viso, e lei ha detto ‘se ti va bene bene, sennò me ne vado’” e ne “L’agnello” la nostra protagonista ha un bel tatuaggio in viso, per altro delicatissimo.
Nora Stassi ha vinto tanti premi per la sua interpretazione, tra cui un Efebo d’oro e una menzione speciale alla Festa del cinema di Roma, sezione Alice nelle città. E se Piredda ha saputo individuare la persona giusta per il personaggio, Nora Stassi dimostra spiccate qualità attorali e una capacità — come poi in molti hanno detto – di “bucare (ma io direi andare al di là del)lo schermo.”
Un film che purtroppo è uscito a ridosso del primo lockdown e ha subito le vicissitudini del cinema postpandemico. Ora lo si può vedere in streaming su tante piattaforme (YouTube, Amazon, AppleTv, Google…), ed è stato distribuito in dvd dalla Cecchi Gori.
Mario Piredda, al suo esordio nel lungometraggio dopo quasi vent’anni di lavoro nel documentario e nello short form, firma un’opera davvero speciale che riesce a combinare il tocco dell’autore con la coralità del cinema.
A me ha colpito soprattutto la sua capacità di essere trasversale, di non caricare le immagini nella maniera canonica, le figure — o i corpi — dei protagonisti (praticamente non ci sono personaggi secondari o comparse, se non i militari, è tutto giocato sull’essenziale, sul significante) si stagliano dallo sfondo: paesaggi, o interni, spesso monocolori (la parete bianca e scrostata di una casa) e sempre puliti — non c’è troppo rumore visivo — e l’immagine è costruita in termini geometrici e di volume, così che i personaggi, che potrebbero sembrare piatti sullo sfondo, emergono sempre, non ne fanno mai parte, sono sempre fuori, tutti, ci sono alcune sequenze mute, che prima ancora di pittoriche sembrano scolpite…
Voto, anche se non si dovrebbe darne, 10.
Per chi invece volesse approfondire il tema degli insediamenti militari in Sardegna, suggerisco l’ispirato documentario “Materia oscura” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (2013) che concentra la sua attenzione proprio sulle esercitazioni che si compiono al poligono sperimentale e di addestramento interforze di Santo di Quirra, nei pressi del quale è stato girato il film.
Silvia Lumaca
L’agnello
Di Mario Piredda
Con Nora Stassi, Luciano Curreli, Michele Dr. Dre Atzori, Piero Marcialis
Durata 97′
Produzione Articolture
2019