Quasi una storia d’eroi è un fumetto disegnato e scritto da Ettore Gula edito da Neo edizioni nella collana “Cromo”. Il noir, di questo si tratta, colpisce innanzitutto per il ritmo sincopato che alterna sguardi e silenzi colmi di storie interiori. Il tratto del disegno è spesso in contrasto con gli spigoli e il mistero della trama. C’è il desiderio che muove i personaggi e un vuoto che li attrae. Alcune vignette evidenziano lo spazio del non detto e della profondità psichica. La profondità, d’altra parte, mi pare evidenziata dai punti di vista che spesso privilegiano i disegni di palazzi dal basso, o l’inquadratura, per così dire, dall’alto e dall’altro, quasi dal punto di vista di chi sta leggendo, di chi sta al di fuori rispetto al luogo della pagina, dall’Altro animale. Fumetto di voyerismo e di contrasti tra l’apparente purezza della campagna che accoglie le azioni del protagonista principale, Ugo, e l’ambigua geometria ordinata della città, luogo di palesi infrazioni, la quasi storia di eroi ci sospende nel transito in cui i personaggi, lungo la vicenda, cambiano, si modificano, fluiscono inevitabili verso il proprio destino. Le due donne, Erika (compagna del violento Franco) e l’ingombrante, in tutti i sensi, madre di Ugo, colmano le loro fragilità con la durezza, evidente, degli atteggiamenti violenti, difensivi. Lo Russo, l’investigatore, ambigua figura del potere, completa la drammaturgia di questi atti sospesi tra l’ombra blu, il nero e il bianco di una storia che mostra, con un retrogusto di malinconica disperazione, l’ineluttabile cui ci costringe, nonostante tutto, il copione dell’esistenza.
Gianluca Garrapa
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In questo fumetto c’è molto sguardo, c’è desiderio e anche molto silenzio e, come scriveva lo scenografo e poeta Balász, a proposito del film sonoro, “quando la musica tace, la paura equivale a un improvviso trattenere il respiro” per esempio in una fase drammatica. Rispetto a questi tre elementi come hai disegnato la storia?
L’idea iniziale è stata pensare di essere desiderati da qualcuno che non conosciamo. Qualcuno che ci brama e che ci spia, senza che noi immaginiamo la sua esistenza. Durante la lavorazione però il personaggio di Ugo, il protagonista, ha preso sempre più piede e c’è stato questo ribaltamento: siamo lui, vediamo tutto dal suo punto di vista, siamo noi che spiamo e bramiamo Erika, la coprotagonista. È una storia di solitudini in cui i personaggi non riescono mai a comunicare veramente tra di loro, non ne sono in grado, non ne hanno i mezzi. Per questo, per raccontarla, ho trovato interessante affidare agli sguardi e al silenzio un ruolo preponderante.
Lo sguardo, inoltre, è spesso voyeurista, non solo quello del protagonista Ugo che scruta nella finestra di Erika, ma pure lo sguardo di chi legge: lo si nota nelle vignette, vere e proprie finestra sull’anima del racconto, in cui il punto di vista è dall’alto, e dall’altro, come nella scena dei corvi che paiono scrutare, antropomorfizzati, le intenzioni degli umani. In altre fasi del racconto, la visuale è dal basso di palazzi incombenti. Persiste, insomma, una notevole attenzione alla profondità, alla verticalità. Che rapporto c’è tra parola, disegno e spazio?
Dal punto di vista dello spazio, ho cercato di usare le parole e i rumori (suoni, garriti dei gabbiani, spari ecc..) per due scopi diversi: per rendere l’idea delle distanze (con scritte in grosso quando sono vicini e appena percettibili man mano che si allontanano) e per dare ritmo al racconto, indicandone pause o enfatizzandone l’azione. La stessa cosa ho cercato di fare con la scansione delle vignette in cui, quelle doppie o quadruple, indicano un tempo di lettura più lento di quelle singole o di quelle strette e verticali che richiedono velocità.
Dal punto di vista grafico invece, mi piace pensare il testo come parte del disegno, non come qualcosa che viene “appiccicato” in un secondo tempo. Per questo è stata importante la ricerca del font di testo che si adattasse meglio ai disegni. In futuro, potrei scrivere direttamente a mano i testi mentre disegno, in modo da amalgamarli ancora di più col mio segno, rendendoli disegno essi stessi.
Il tratto disegna anche le caratteristiche interiori dei personaggi. Il viso, a esempio: si vede la spigolosità del ‘cattivo’ Franco e le curve del ‘buono’ Ugo, o il baffo ambiguo di Lo Russo. Spesso però le forme disattendono il contenuto. Come nascono i disegni dei personaggi e perché questa è ‘quasi’ una storia e non semplicemente una ‘storia d’eroi’?
I personaggi si sono modellati e sono cambiati, sia fisicamente che caratterialmente, man mano che procedevo a disegnare lo storyboard (non ho scritto una vera e propria sceneggiatura). È stato un lavoro molto lungo in cui molte sequenze sono state ridisegnate e cambiate più volte fino ad arrivare alla versione definitiva a matita. O almeno così credevo. In realtà durante la fase d’inchiostrazione, ho apportato ulteriori modifiche che rendessero più fluido e coerente lo storytelling e la regia.
Il “Quasi” deriva dal fatto che nessuno nella storia, men che meno Ugo il protagonista, possa definirsi eroe sebbene, a modo suo, ci provi. Mi piace l’idea e l’ingenuità che mette per salvare Erika ma, di fatto restando quello che è, una persona piena di difetti e tutt’altro che un vincente.
Le donne in questo fumetto sono due madri alquanto complicate e severe, anche se non mancano di, seppur repressa, fragilità. Nella storia la violenza si alterna alla solitudine, e anche chi procura la morte, chi aggredisce, è quasi sempre, a sua volta, una vittima. Erotismo e rifiuto, abbandono e riscatto. Quanto sei interessato all’interiorità dei tuoi personaggi a partire dalla storia scritta che dovrai disegnare?
Ho cercato di curare molto l’aspetto psicologico dei personaggi per caratterizzarli al meglio cercando di non cadere nel tranello di farli o “buoni” o “cattivi”. Ognuno di loro è un miscuglio di bene e male e ha le sue ragioni per fare quello che fa e, spero, di essere riuscito a far sì che il lettore lo capisca. Erika in particolare è una ragazza madre con una vita completamente diversa alle spalle. Un passato da sportiva, in cui si possono intuire metodo e disciplina, prima che tutto andasse a rotoli e sprecasse il suo talento.
La periferia e la città si contrappongono, e molte sono le vignette che mostrano l’idea del labirinto. Natura e civiltà, imprevedibile e insondabile mistero di contro alla prevedibile sistemazione della legge. Che rapporto hai con l’una e con l’altra dimensione e come influisce tutto questo con lo spazio del disegno? Il fluido e il cemento hanno linee differenti, eppure, ogni paesaggio, urbano o naturalistico, ha un suo carattere che si può evidenziare proprio dallo scorcio che si intende disegnare. Come ti comporti in questo caso? Preferisci essere più metonimico, o più metaforico?
Ho cercato di rendere visiva la dicotomia che vive Ugo, il protagonista, schiacciato tra la convivenza con una madre castrante di cui si prende cura e il suo mondo interiore che concentra il suo desiderio di libertà e fuga nell’avere Erika. Per questo ho pensato di ambientarla in una zona di confine, dove la città finisce e cominciano i campi. Il contrasto tra la densità dei palazzi e il diradarsi verso la campagna con il fiume che si allontana e che tutto porta via, creando “un’apertura”, mi sembravano una bella metafora.
I palazzi incombono come Leggi, punti riferimento di tutta la storia. Finestre come fessure misteriose, ma prolifiche di storie, in vignette che operano uno stacco tra la vicenda dei quasi eroi e la quotidiana esistenza degli altri, assenti, testimoni invisibili. Un ambiente filmico e paradossalmente corale, nell’assenza di comparse. Ci sono stati dei riferimenti filmici e artistici per queste tavole?
Penso di dovere molto al cinema di Garrone, un regista che amo soprattutto in film come “L’imbalsamatore” o “Dogman”. Credo che il suo modo rarefatto di raccontare, il ritmo con cui gestisce le sequenze, gli spazi e i silenzi, mi abbiano molto influenzato.