Il confine è il quarto romanzo di Silvia Cossu edito nel 2022 da Neo ed. nella collana Iena e racconta quel limite sfumato tra realtà e suggestione attraversato da una scrittrice che decide di dedicarsi alle biografie di chi desidera una storia diversa della propria vita, gratificante se possibile. Le pagine di Cossu, con una maestria che alterna scrittura cinematica e intuizione del profondo, ricordano la narrativa di E.A.Poe – il famoso racconto Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma – in un gioco di finte apparenze e sogni realistici. Nel romanzo, diviso in due parti e orchestrato in brevi capitoletti molto simili a cambi-scena, sequenze filmiche montate con perizia magnetica alternano maschere e fraintendimenti, anime che confondono vita e sogno – o la vita è sogno? – attraverso le fughe della mente incalzata da un inconscio desiderante. La biografia che la scrittrice deve inventare ruota intorno alla vita dello psichiatra Mosco. È folgorante l’idea di innestare deviazioni scientifiche della psicoterapia (breve), nozioni di psicopatologia (pertinenti) in un percorso di finzione-flusso che inganna chi legge al limite del dubbio che questa storia possa davvero accadere. Sospendere la credulità, leggendo un romanzo oggi, è impresa difficile, ma Cossu riesce, secondo me, a stornare il nostro mondo interiore e a condurlo in una favola che ci spiazza, alla fine, e ci lascia attoniti. Il confine sconcerta con la stessa forza di quell’ultimo film di Kubrick, Eyes wide shut, che non a caso prende le mosse dal Doppio Sogno di Schnitzler: Sogno è pure il titolo di una pellicola della regista Irma – il nome evoca quello di un famoso saggio scritto da Freud a partire da un suo sogno: L’iniezione di Irma – uno dei personaggi del romanzo. Se la vita è un sogno, dunque, questo romanzo ne potrebbe essere la guida subliminale. In esergo al romanzo una citazione – «Quello che vediamo non è una riproduzione dell’esterno. È quanto ci aspettiamo, corretto da quanto riusciamo a cogliere» – da Helgoland di Carlo Rovelli. Il confine è una certezza ipnotica costruita attorno a una solida architettura sensoriale.
Gianluca Garrapa
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«Quello che vediamo non è una riproduzione dell’esterno.
È quanto ci aspettiamo, corretto da quanto riusciamo a cogliere.» In esergo al tuo romanzo è questo estratto da Helgoland di Carlo Rovelli che racchiude il sugo del discorso de Il confine. Helgoland racconta la storia della nascita della teoria quantistica, e leggendo il tuo romanzo ho avuto l’impressione che tra i personaggi della vicenda si stabiliscano legami e interferenze imprevedibili. Passato e futuro sembrano interagire in maniera non lineare. Come hai costruito questa storia?
Leggere Helgoland è stata una folgorazione. Avevo appena finito Il confine, ancora mi chiedevo di cosa parlasse, e mi è capitato tra le mani il libro di Rovelli. La teoria dei quanti ci dice che l’altro (persona, cosa, oggetto) non è conoscibile al di fuori della relazione che instaura con l’osservatore. Le caratteristiche di un oggetto, le sue proprietà, che per secoli l’uomo ha cercato di definire in termini assoluti, non sono intrinseche, ma dipendono ed esistono unicamente nella relazione che si instaura tra chi “osserva” e chi “viene osservato”. Che declinato in termini letterari è ciò che accade ne Il confine. La biografa che si ostina a inseguire e smascherare lo psichiatra, in realtà sta smascherando se stessa. E l’unico elemento che alla fine diventa conoscibile è ciò che quell’interazione ha prodotto. La filigrana della loro relazione. L’esito è ancora più radicale se pensiamo che non essendo l’uomo capace di una visione “oggettiva”, ciò che ciascuno “si aspetta” in molti casi diviene determinante. (La psicologia parla di “profezia che si autoavvera”).
«L’unica biografia per cui non mi sono fatta pagare (ma questo non lo dico). Ho affinato la tecnica, soprattutto su come rendere desiderabile un accessorio effimero, una velleità.» La scrittrice si dedica alla biografia di Mosco, lo psichiatra protagonista del romanzo, e nel racconto, a un certo punto, appare Proust e la mente va, invece, a un genere confinante: l’autobiografia – in passato hai scritto un memoir. In questa biografia la scrittrice implica il proprio vissuto: quanto di te entra in quello che scrivi e che ruolo ha la memoria nella tua scrittura?
Tutto di me entra nella mia scrittura. (D’altronde non saprei come separarmene!) Non in termini letterali, ovviamente. E credo che questo valga sempre, per chiunque. In più sono convinta che l’invenzione sia in grado di intercettare i temi esistenziali e le verità profonde di chi scrive persino meglio dell’autobiografia. Tento un azzardo: la finzione sta all’inconscio, come l’autobiografia al conscio. Entrambi rivelano una parte della verità, pur partendo da premesse opposte. Invece, il memoir di qualche anno fa è rimasto un’esperienza isolata, e mi è servito a fissare eventi che la memoria altrimenti si sarebbe affrettata a rimuovere.
«Prescrive perlopiù atti “psicomagici” (in linea con la definizione di Jodorowsky), cioè atti che possiedono un alto potere di suggestione per l’inconscio, idonei quindi a modificarne i parametri.» La linea principale del romanzo verte sulla biografia dello psichiatra Mosco e dunque tornano spesso termini psicoanalitici, il nome di Irma in qualche modo ricorda quello del caso di Freud; il rapporto con lo psichiatra Mosco sembra incarnare i meccanismi di transfert e controtransfert. La suggestione: che rapporti hai con la psicoanalisi e con la magia?
Non ricordavo il racconto di Freud, se non in termini molto vaghi, e chissà che il nome di Irma non sia una citazione inconscia! Ho praticato la psicoanalisi per anni e di fronte alle “terapie brevi” ho provato un misto di fascinazione e scetticismo. Conoscendo la fatica, il lavoro, gli arresti e la durata della terapia tradizionale, non potevo non dubitare di ciò che mi appariva come una “scorciatoia”. Così ho approfondito. Il viaggio affrontato dai precursori di questo approccio, negli anni Settanta, è quasi utopistico. Le terapie subliminale, paradossale e strategica si muovono su un confine in cui ciò che siamo abituati a ritenere “scientifico” si confonde con ciò che non lo è. Mi riferisco alla suggestione e a tutte le sue declinazioni (come la fede) che producono “cura”. Che è proprio la risorsa a cui la Psicomagia di Jodorowsky (altra lettura straordinaria) si rivolge.
«Il sogno sarà la prima cosa da raccontare a Mosco al suo rientro. La storia del fisico deve avermi talmente suggestionato da desiderare, in qualche modo, di sostituirmi a lui.» Ti sei occupata anche di cinema, sceneggiato alcuni film: che ruolo ha nella tua vita di autrice, in ambito letterario e cinematografico, il sogno e il desiderio?
Il primo romanzo comincia con un sogno. Lasciando da parte Borges che ha dato della letteratura una delle definizioni secondo me più illuminanti, paragonandola alla prosecuzione di un sogno in fase di veglia, in effetti quando scrivo (e non mi riferisco qui alla sceneggiatura) parto sempre da una sensazione, da un umore di fondo che sta lì, insistente, pervasivo… I sogni abbondano di questi stati d’animo sospesi, ne offrono una riserva infinita. E basta richiamarli alla memoria per ritrovarcisi immersi fino al collo.
Il desiderio è l’altro tema della storia. La biografa non lo rintraccia più da nessuna parte, neppure come richiamo erotico, e non se ne cura. Scrive per soldi, il guadagno rappresenta l’unica molla che la spinge a sedersi davanti a un computer per compiacere chi la “paga”. Romain Gary dice che l’unica prostituzione che lo preoccupa non è quella che avviene “dalla cintola in giù,” ma l’altra “dalla cintola in su”. Quella del cuore e dei sentimenti, quella del pensiero. Aggiungerei del “desiderio”. E in questa accezione l’attività a cui la protagonista si dedica può definirsi prostituzione. (Senza alcun giudizio morale).
«Un nome famoso che, insieme al più noto Basaglia, ha cambiato le sorti del Paese e avviato la sperimentazione di nuovi approcci alla malattia mentale.» Il nome famoso è quello del mentore che ha introdotto Mosco nel mondo della psichiatria. Come è nata in te la passione per la scrittura? E chi sono i tuoi riferimenti letterari? Tra l’altro, il romanzo ha una struttura molto particolare, paradossale e onirica: sei più attratta dalla tradizione o dalla sperimentazione?
Il romanzo ha una struttura paradossale perché quella è la forma di terapia messa in atto nel racconto. Se e quanto questo possa definirsi “sperimentale” non lo so. Carrère, Trevi, ma anche Kundera, mescolano continuamente elementi di derivazione diversa. Inseguono una tesi narrativamente. Noi abbiamo una mente, un’intelligenza analitica sconfinata, processiamo dati, sensazioni, idee, li elaboriamo in ragionamenti di complessità sorprendente, e poi basta un semplice trucco a metterla nel sacco. Questo è davvero affascinante. Si può dire che il nostro inconscio risponde al linguaggio magico e metaforico come (e meglio di) un bambino.
«Le prime parole su cui cade lo sguardo suonano irreali. Si chiama pseudologia “la tendenza abituale a inventare bugie, a cui spesso crede l’autore stesso, allo scopo di destare ammirazione, compassione o comunque interesse, riducendo gli altri al ruolo di spettatori incantati”.» Oltre a Freud, Basaglia, Eriksson e le Psicoterapie brevi di Megglé, nel romanzo compare una nota estratta da Umberto Galimberti. In realtà questo passaggio mi ha fatto venire in mente un saggio di Gianni Celati presente in Finzioni Occidentali, dedicato al tema del doppio parodico e in particolare al legame che unisce lettore, autore e personaggio. Legame di credulità e realismo, suggestione e razionalità. Maschere e smascheramenti che dissimulano altre maschere e infine il vuoto della Cosa. Come sono nati i protagonisti di questo romanzo e quanto hanno di reale le storie che scrivi?
La biografia è un genere che mi affascina molto e attorno al quale in una maniera o nell’altra, da qualche anno, il mio lavoro ruota. Le forme che assume la composizione tra chi ritrae e chi viene ritratto. Qui, più che la biografia in senso stretto, mi interessava la relazione che si crea all’interno di quello spazio immaginario, dove le aspettative si sovrappongono e l’intervistato, cioè lo psichiatra, (mentendo) chiede alla protagonista di trovare la verità. Che poi il racconto imiti il passo di un resoconto “autobiografico” (senza esserlo) è stata una scelta precisa, un modo per condurre il lettore all’interno della voce narrante e procedere con lui fino alla fine. Scavare, tentando di afferrare l’identità dell’altro, per arrivare al vuoto della Cosa (come la definisci tu), è la dimostrazione “quantica” dell’errore della premessa. Perché l’altro si rivela solo all’interno della relazione. In ciò che questa produce.