Quando piove canto più forte è il titolo del nuovo libro di Paolo Fiorucci edito da Neo ed. nella collana Intimate nel 2021. Il titolo è già indicativo del ritmo che caratterizza questa raccolta di poesie e fotografie. Infatti, a una prima rapida scorsa, colpisce l’alternanza tra testo e immagine (le fotografie di una vecchia Polaroid Spirit 600 CL, appunto, che riprendono alcuni spazi in cui si colloca l’ispirazione di Fiorucci). Colpisce perché sembra suggerirci la questione se sia più potente l’immagine o la parola. In questo caso, v’è una giustapposizione di ruoli: poesia e immagine sono due facce della stessa medaglia: nelle liriche come nelle immagini, il principio è quello del sottrarre, colore, parola, fino all’essenziale. Una sottrazione dalla scena della scrittura la opera anche la voce del poeta che, pur parlando di sé e del suo territorio, si posiziona in un autoscatto che rende epico lo sguardo, come un attore che rappresenta il proprio personaggio, senza aderirvi, se non con una distanza ironica e pure melanconica. Il paesaggio abruzzese non risponde del tutto al territorio, che l’immagine riprende con artificio realistico e la parola racconta con esperienza interiore, propria, originale. La scrittura, pur essendo lineare, adotta il verso libero senza però smettere, spesso, una cadenza musicale. Poesia tanto immediata quanto capace di aggiungere dei particolari alla nostra percezione del mondo e del tempo che avanza. Campagna e paese, montagna e cielo. Vive di contrasti la terra della scrittura lapidata simbolicamente dal linguaggio che piove dall’alto (memoria lacaniana). La pioggia, poi, mentre si attende cessi di scendere, lava, pulisce la visione, amplifica lo sguardo, da quel poco che è consentito osservare e indica la rotta di un’intera generazione. A fine libro, dopo l’indice, due paginette: Appunti di viaggio e fotografici. Due pagine bianche, come forse questo dovrebbe essere la poesia: ascolto e accoglimento della luce. Silenzio e apertura al mondo, materia vergine e potenziale di suono.
Gianluca Garrapa
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«I pini fanno a gara a chi è più alto,
quando la terra non basta qualcuno cede
e cade nel cimitero del bosco
che scalda l’inverno alle persone.»
È un estratto da Residenze, dove bene si vede il presente del paesaggio che si anima. Il luogo intorno si staglia attorno agli esseri umani e le forme antropiche della biologia trovano posto nella residenza, appunto, nella casa. Che rapporto ha con il territorio la tua poesia? e come nasce questa silloge il cui titolo evoca da subito una simbiosi tra evento atmosferico e sentire umano?
La mia poesia comincia dal territorio, dalla residenza dell’istante, ma ancor di più dal silenzio che anima un territorio appena prima di essere svelato attraverso un pensiero sensibile che può farsi parole. Quando piove canto più forte nasce come una sorta di autobiografia in versi e immagini degli ultimi due anni, con qualche sortita nel primissimo tempo della mia vita, negli anni Novanta degli antieroi e dei magnifici perdenti, in un cammino che dalla periferia di una città arriva ai bordi dell’Appennino, non spostando mai lo sguardo dal margine e da chi lo abita.
«Scrivo
perché ho fame
e so fare solo questo:
avere fame e scrivere.
Poesia
è una strega delle case popolari
che impaurisce i bambini
e chiama
nel suo appartamento lurido
dove vivo
da più di trent’anni.»
Dove abita la strega è una poesia che richiama molto bene il livello fisico, corporale, della scrittura. La scrittura è desiderio reale della voce incarnata, è mito, favola e bisogno. Nell’apparente superficialità (e la profondità è proprio nella superficie) c’è un continuo interfacciarsi con l’altro che ascolta. Oltre a essere poeta, sei un libraio e quindi hai a che fare con il ‘commercio’ anche dei libri e della poesia. Come definiresti la tua poesia? e ritieni che si possa stabilire a priori che tipo di poesia si scriverà?
Credo sia una poesia minima, capace di entrare nella tasca di un bagaglio semplice. Nella scrittura mi capita di utilizzare le stesse parole che uso nei discorsi al bar o dal barbiere, il lessico meno consueto e l’avanguardia non mi appartengono, sono abiti che non so indossare. Non credo si possa scrivere seguendo una ricetta a priori, con dei dosaggi esatti dettati da un proprio manifesto programmatico. Sicuramente si è influenzati dalle letture che toccano maggiormente alcune corde del nostro sentire, dall’incontro con le opere di scrittori che ti fanno venire anche la voglia di scrivere.
Il libro alterna testo scritto alle fotografie di una vecchia Polaroid Spirit 600 CL. Si tratta di foto che segnano il passaggio delle generazioni, della trasformazione ambientale, delle abitudini e lasciano immaginare, dal passato, il probabile futuro. Come querce, queste immagini immobili, ci consegnano l’azione del divenire. Che valore assegni alla parola e all’immagine? In che rapporto sono questi due aspetti?
Le parole sono fatte di immagini e le immagini sono fatte di parole. Le Polaroid nel libro aggiungono e tolgono al tempo stesso strade interpretative, attenuano o intensificano attimi di felicità e momenti disperati. Sono facce della stessa medaglia che per certi versi si somigliano, soprattutto per quanto riguarda l’attesa dell’istante giusto, dello sguardo che vale la pena mutare in memoria di carta e pellicola.
Nella postfazione di Amedeo Di Nicola alla tua silloge si citano: Pound, Caproni, Modugno, Pasolini, Ungaretti. Ci sono stati dei riferimenti letterari e extraletterari che ti hanno stimolato a scrivere?
Sì, decisamente. In Quando piove canto più forte si muovono, sotto forma di riferimenti più o meno nascosti, Domenico Modugno, Roberto Baggio, Nico, Luis Sepúlveda, Aladino, le BMX, le Mille e una Notte, Ismaele e Moby Dick, Penelope, Dylan Dog, Alice nel Paese delle Meraviglie, il pianeta K-PAX, gli Urania Mondadori e Marco Pantani.
Per quanto riguarda i poeti che sono stati per me fondamentali, a vivere più che a scrivere, sicuramente: Izet Sarajlic, Giorgio Caproni, Raymond Carver, Charles Bukowski, Giuseppe Ungaretti, Modesto Della Porta, Massimo Pamio e Clemente Di Leo.
«Mi dirà: «Papà! Cosa ci fai qui?
Ti abbiamo cercato tanto!
Non c’è nessuno al paese antico,
non esistono più librerie,
leggono tutti elettronico ormai».»
È un estratto da L’ultima libreria del mondo: è una visione abbastanza probabile e cupa. Anche se non credo che il cartaceo sparirà del tutto, almeno spero. Questi versi mi fanno pensare a cose come la legge del mercato e l’idealismo di chi vorrebbe restare ancorato alla propria tradizione, insomma da un lato una legge universale e omologante e dall’altro il desiderio soggettivo. Come credi che possa rapportarsi la (tua) poesia a questi due estremi?
Più che mostrare una visione abbastanza probabile e cupa – anche se come te credo che il cartaceo non scomparirà mai del tutto – la poesia che citi è soprattutto una dichiarazione d’amore sconfinato per il mio mestiere di libraio. In quei versi mi immagino più che anziano, quasi cieco, tuttavia ostinato ad aspettare ancora un cliente nella mia vecchia libreria, in realtà ormai chiusa da anni. La mia scrittura racconta uno dei due estremi, quello idealista e lontano dal mercato, il desiderio soggettivo di restare ancorato a me stesso, ai luoghi che mi somigliano, alle loro parole e ai loro silenzi, che sono anche miei.
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Paolo Fiorucci, Quando piove canto più forte, Neo edizioni 2021, collana Intimate