Per parlare d’arte partirei da quel giorno in cui qualcosa dentro di me scattò determinando ogni scelta che avrei fatto in seguito.
Ero piccolo, non so esattamente quanti anni avessi, ma ricordo guardare il mondo dal basso.
Avevo sempre disegnato e dipinto, tanto che mio padre, a soli sei anni, mi regalò un cavalletto, delle piccole tele e dei colori ad olio comprati in Polonia.
Al disegno ed alla pittura avevo, da quando ho memoria, affidato il mio tempo, il mio pensiero ed il mio cuore. Era il luogo dove stavo bene ed, oggi come allora, lì volevo e voglio restare.
Ero piccolo dicevo, ma non esiste età per l’amore. Ed io amavo entrare in quella casa e lasciare che i miei occhi si posassero sui tanti elementi che la adornavano. Chitarre, pianoforti, sassofoni, pagine e pagine di spartiti sparsi ovunque, fotografie in bianco e nero di cui ne ricordo una di mia zia con un gatto, disegni, vinili e poster di concerti di tutti i tipi. Quadri, moltissimi, di cui alcuni per me illeggibili.
Mi piaceva seguire con lo sguardo il fumo della pipa aleggiare sospeso a mezz’aria, i gatti muoversi silenziosi, un siamese strusciarsi sulle mie gambe per poi saltare sul ripiano in legno sopra il termosifone.
Quel giorno entrando, mischiato all’odore così caldo e familiare dei gatti e della pipa, notai quello specifico, che ancora oggi ogni volta mi sorprende, della pittura ad olio.
Ricordo l’ingresso ed il piccolo corridoio che, sorpassata la cucina sulla destra, portava al salone. La porta a doppia anta che lo precedeva era quella tipica delle vecchie case a ringhiera di Milano. Alte, di legno bianco e con il vetro opalescente. La porta era socchiusa.
Mi diressi verso il salone dove ero solito andare e dove lui, mio zio, mi lasciava curiosare liberamente. Io non toccavo mai nulla perché era un disordine così armonico da lasciarmi senza fiato ed avevo paura che toccando o muovendone un elemento avrei rotto quell’incantesimo che tanto mi affascinava.
Ricordo la mia mano destra aggrapparsi alla maniglia della porta e tirarla verso di me in maniera da avere lo spazio sufficiente per poter passare. So come era quella sala di cui ancora oggi potrei descrivere con una misteriosa precisione la distribuzione e gli oggetti che la abitavano. Ma quel giorno la luce entrava dritta e bianca dalle finestre a destra e vedevo le particelle di polvere muoversi nell’ambiente. Quel giorno però la mia attenzione fu completamente attratta da quella luce animata e dal cavalletto nel centro della sala. Quel giorno vidi la struttura forte e lignea di quel cavalletto sostenere una tela. E da questa tela uscire un colore caldo ed arido proiettandosi nei miei occhi. Forse era solo una terra di siena naturale mischiata con una punta di giallo di cadmio, eppure quel giorno quel colore fu qualcosa di più. Se oggi amo la Spagna del sud o i suoi deserti é forse perché é intrisa di quel colore e la sua luce risplende dei toni caldi. Se oggi ogni volta che il tramonto si accende di giallo mi trema il cuore e qualcosa in me si acquieta e trova la pace, forse é proprio grazie a quel colore.
Mi avvicinai e la pittura mi sembrava viva, trasudava luce e brillava fresca. Era come vedere la donna che ami tirare la testa fuori dal mare ed, avendola vicina, complice la luce estiva, osservarne lo splendore del volto benedetto dalla luce riflessa di miriadi di goccioline pronte a scivolare sulla pelle.
In quei momenti tutto si ferma perché la meraviglia colma ogni desiderio rendendolo per un istante compiuto.
Nella parte alta della tela un azzurro slavato e nel centro delle sagome solo abbozzate.
Ora so che era un d’après, so di chi é l’originale e quale opera ma, all’epoca, ero solo un bambino catturato dalla bellezza di un colore.
Ad oggi ho visto moltissimi quadri, sculture, istallazioni, video ecc., ho visitato moltissime gallerie private, fondazioni e musei. Ho visto e mi son commosso davanti ad opere meravigliose, così immense da perdonare tutta la miseria dell’umanità. Almeno per me. O forse, che sia così per me, é l’unica maniera grazie alla quale le mie parole possono avere un senso.
Guardata con gli occhi di oggi so che quell’opera era ed é mediocre ma, nonostante questa evidenza, nessun’altra dopo di lei, pur sconvolgendomi, straziandomi, illuminandomi, ha avuto la forza di quel quadro che quel giorno cambiò definitivamente le sorti della mia vita.
In fondo nessuno di noi sa se quello che facciamo abbia o non abbia un senso, se realmente abbia il potere di cambiare le cose anche fosse solo alimentando o dando voce al desiderio di un altro essere.
E forse oggi, proprio grazie a questa esperienza infantile, so che tutto ha significato. E che tutto può accendere la scintilla negli occhi di un bambino trasformando definitivamente il corso della sua vita.
Grazie a Dio, noi non abbiamo il potere di decidere nulla, in definitiva, possiamo solo assecondare il desiderio che ci scuote.
Forse, queste esperienze, accadono proprio grazie a Dio, qualsiasi cosa questo termine voglia significare.
Paolo Maggis