John Dann MacDonald è conosciuto soprattutto per il romanzo Cape Fear, libro particolarmente amato da scrittori come Stephen King e Kurt Vonnegut, da cui sono stati tratti i due omonimi film. Ora Mattioli 1885 manda in libreria il suo Assassinio nel vento, pubblicato nella collana “Frontiere” con la splendida traduzione di Nicola Manuppelli.
Le prime pagine del romanzo si aprono tra le onde del mare e il vento che salgono di intensità, mentre un uragano di terrificante violenza incombe sulle coste della Florida occidentale. In questo angolo d’America la narrazione mette a fuoco – progressivamente – un gruppo di persone che, con storie e destini diversi, cercano di trovare un riparo dalla terribile tempesta che si sta per abbattere, trovandosi riunite fortuitamente in una casa abbandonata. È un gruppo di anime in difficoltà, per un motivo o per l’altro, che comprende un agente sotto copertura in cerca di vendetta personale, un giovane criminale, una fascinosa vedova che intende ricominciare la sua vita, un uomo d’affari prossimo al fallimento. Investito dalla violenza della natura, il loro rifugio si trasforma in una sorta di macabro hotel in cui, improvvisamente, si addensa la mano oscura della morte.
In Assassinio nel vento John Dann MacDonald sfoggia tutta la sua capacità di maestro della suspense, ma limitare solo a questa dimensione la sua scrittura sarebbe decisamente ingiusto: si tratta, infatti, di grande letteratura americana, illuminata da una straordinaria quanto incisiva e asciutta capacità di raccontare e di raffigurare attraverso una lingua piana ma di straordinaria capacità espressiva.
E la stessa storia letteraria di MacDonald è da tenere presente. Tutto iniziò per lui durante la Seconda Guerra Mondiale – di stanza in Estremo Oriente – quando spedì alla moglie un racconto. La donna lo presentò alla rivista “Story”, che lo pubblicò. Quando fece ritorno in patria, MacDonald si dedicò completamente alla scrittura, imponendosi rapidamente sulla scena letteraria americana.
Paolo Melissi
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Fatta eccezione per una lenta onda oleosa, la domenica mattina del 4 ottobre il Mar dei Caraibi era piatto e tranquillo, e stranamente immobile. Sarrensen, il capitano della motonave svedese Altagarde, stava facendo una colazione tardiva in solitudine nella sua cabina. Aveva dormito male e la sua digestione, mai affidabile, lo stava tormentando più del solito durante quel viaggio.
Sarrensen era un uomo piccolo, con un modo di fare calmo e distaccato, un’espressione inacidita e la reputazione di essere un professionista affidabile. Erano le nove passate quando salì sul ponte, fece un cenno al Terzo, controllò il registro e la rotta, e uscì sull’ala di babordo del ponte. Si infilò le dita corte e tozze nella cintura e, mentre fissava il mondo marino intorno a lui, premette nel punto in cui avvertiva un crampo all’addome. La giornata non gli sembrava promettere nulla di buono. Il cielo, anche se senza nuvole, era troppo sbiadito. Il sole feroce e bianco. Il mare piatto aveva l’aspetto di uno specchio azzurro appannato da un soffio di alito caldo. Era impossibile distinguere il confine tra mare e cielo.
La prossima destinazione dell’Altagarde era L’Avana, a circa cinquecento miglia nautiche di distanza. Il capitano controllò il suo orologio d’oro, fissò il cielo e stimò il loro arrivo per le nove di lunedì sera. E tuttavia quella giornata continuava a non promettergli nulla di buono.
Tornò dentro e si fermò vicino al Terzo, osservando il barometro. La pressione era bassa. Non tanto bassa da suggerire un pericolo, ma comunque significativamente bassa.
“Continua a scendere?” chiese.
“Non tanto. È abbastanza stabile. È più o meno così dalle sei. Ho detto a Sparks di tenere la situazione sotto controllo il più attentamente possibile.”
“Bene.”
Sarrensen uscì sull’ala di tribordo. Appoggiò le braccia alla ringhiera ed emise un piccolo grugnito di dolore per una fitta allo stomaco particolarmente acuta. L’Altagarde sembrava immobile. Scorreva dolcemente attraverso il mare informe, ondeggiando ma in modo lieve fra le lunghe e lente onde. La scia che si lasciava alle spalle sembrava una linea tirata con il righello. Attraverso le suole delle scarpe e il tremolio della ringhiera, Sarrensen sentiva il basso e confortante ciaf-ciaf, ciaf-ciaf, ciaf-ciaf dell’albero portaelica.
Tirò fuori l’orologio e cronometrò la frequenza dei flutti: tra i cinque e i sei al minuto. In queste acque tropicali la norma era otto. Un uragano riduceva l’incidenza dei flutti e faceva sì che si irradiassero in tutte le direzioni a partire dal centro della burrasca, muovendosi a volte a centotrenta chilometri orari, avanzando molto più in là della tempesta, e recapitando un sicuro avvertimento ai popoli primitivi delle isole. Studiò attentamente la direzione da cui provenivano i flutti in relazione alla direzione della bussola della nave. Poi andò di sotto.
Alle tre del pomeriggio di domenica 4 ottobre cominciò a soffiare il vento. Veniva da est. Era un vento incostante, sfuggente, dispettoso. Increspava l’azzurro fosco del mare. Rare raffiche, violente quasi come una burrasca, premevano contro il fianco d’acciaio dell’Altagarde, che rispondeva rollando. Sarrensen uscì sull’ala di tribordo. Alte bande di cirri si propagavano da un punto all’orizzonte verso sudest. Sarrensen girò il viso dritto contro il vento. Era una regola empirica, che esisteva da quando gli essere umani cercavano di dominare il mare: nell’emisfero settentrionale, quando i venti degli uragani soffiano con il vento in prua, se ci si posiziona con il viso contro vento, il centro della tempesta si trova esattamente a dritta. Ed era un’ulteriore conferma della direzione che i flutti gli avevano già indicato. La tempesta era lontana, alle sue spalle. E sapere dove si trovava placò parte del disagio che aveva provato dall’inizio di quella giornata.
(…)
A un certo punto, a metà di martedì 6 ottobre, l’uragano Hilda cambiò direzione. Sollevò le proprie grandi gonne grigie e si spostò a ovest. Dieci miliardi di tonnellate di pioggia calda erano precipitate pesantemente su Cuba e, alle due del pomeriggio, le raffiche che colpivano L’Avana raggiunsero un picco di ottanta chilometri orari. Cominciarono a diminuire d’intensità e poi la pioggia cessò. Anche Key West si ritrovò sotto la pioggia, sferzata da venti non meno violenti. Hilda li aggirò e si spostò verso il golfo del Messico. Le precauzioni a Miami si allentarono. Le città della costa occidentale della Florida iniziarono a prepararsi come era accaduto in precedenza a Miami. A mezzanotte il cielo sopra Cuba era immobile e le stelle erano chiare e luminose. Fu allora che il cielo sopra Key West iniziò a schiarirsi. A Naples pioveva a dirotto, e anche a Fort Myers. La pioggia era appena iniziata a Boca Grande. A Clearwater cominciò solo alle tre del mattino.