Ecco a cosa serve la filosofia: ampliare il fronte del possibile. Permetterci di immaginare e così creare nuove condizioni di pensiero e di esistenza. Senza filosofia, e dunque senza lo strumento critico e di riflessione per eccellenza, non esisterebbe movimento; le idee spunterebbero nelle teste delle persone senza ragione e soprattutto senza possibilità di essere messe in discussione. Invece le idee hanno radici e germogli, possono morire e rinascere. Capirne la portata, arginarne il pericolo, lasciarle fiorire sono i compiti di un essere umano che non voglia eludere la sua condizione, ma vivere una vita consapevole e rispettosa degli altri. E a proposito di rispetto, c’è un’idea in particolare che, volenti o nolenti, la nostra società tende a considerare negativamente, nella migliore delle ipotesi come fallimento esistenziale: è l’idea del suicidio. Simon Critchley, rinomato filosofo britannico, insoddisfatto di questa idea, perché retaggio di modi di pensare che non reggono l’evoluzione della sensibilità contemporanea, in movimento come tutto il resto, dedica al tema un libro. In Note sul suicidio, pubblicato nel 2015 e ora disponibile nella traduzione italiana a cura di Alberto Cristofori, Critchley, che si autodefinisce “fenomenologo esistenzialista”, indaga l’idea di suicidio nel corso della storia e nella società attuale arrivando alla conclusione che sia il concetto stesso di suicidio a dover essere ripensato: “per molti versi, il problema col suicidio è che costringiamo una vasta gamma di comportamenti in un solo concetto. La decisione di porre fine alla propria vita in tarda età, in conseguenza di una diagnosi terminale e di insopportabili sofferenze fisiche, è cosa ben diversa dall’improvviso gesto violento commesso in un attimo di folle esuberanza. L’autoannientamento di un amante tradito è molto diverso dalla follia accuratamente pianificata di un attentatore suicida”. Abbiamo certamente bisogno di differenziare questi comportamenti che in comune hanno solo l’esito finale, al quale però si è giunti attraverso modalità, sentimenti e conseguenze fra loro inconciliabili. Lo stigma del suicidio, ci dice Critchley, deriva dalla morale cristiana, per cui l’atto di porre fine alla propria vita sarebbe un peccato, ovvero il peccato di rifiutare il dono della vita datoci da Dio. A smontare questa morale “bovina”, che tuttora aleggia nei nostri discorsi imbarazzati sul tema, fu già il brillante David Hume a colpi di filosofia con il suo Del suicidio, che Critchley mette in appendice al libro. Ma per Critchley non basta rifiutare la condanna del suicidio come insubordinazione a una sovranità altrui, che sia di Dio, dello stato o del Re non fa differenza (nel libro vengono raccontate le pene inflitte ai suicidi e ai loro cari nel corso della storia). Nemmeno l’idea libertaria dell’io sovrano, che riabilita il suicidio come atto di autonomia, può esaurire il discorso: se non apparteniamo a Dio, allo stato o al Re, non significa che apparteniamo a noi stessi. La situazione è più complessa di così. Siamo esseri relazionali e non possiamo ragionare sui diritti dimenticandoci i doveri. Il fatto, scrive il filosofo britannico, è che “gli argomenti pro e contro il suicidio, basati sui concetti di diritti e doveri, crollano quando vengono messi alla prova”. Semplicemente, sembra dirci Critchley, perché non sappiamo dove stiamo andando, che cosa sia la morte. Come fa il suicidio a essere una scelta razionale? Sembra più che altro un salto nel buio, un atto di fede, quasi una speranza. Un altro limite che abbiamo è quello di riuscire a considerare il suicidio come scelta “senza motivo”. Semplicemente perché si vuole morire, senza essere depressi, disperati o stanchi, decidendo così quale significato lasciare di sé alla luce dell’ultimo atto. E qui arriviamo alle conclusioni del filosofo, che non vogliono essere una fine ma piuttosto un invito alla discussione e alla riflessione. “Essere umani è avere la capacità, in ogni singolo momento, di uccidersi”. Forse è proprio questa la differenza umana. Ma questa consapevolezza, finanche tragica, può essere proficua per la vita. Sulla scorta di Nietzsche e Cioran, Critchley scrive che “i veri pessimisti non si uccidono”, ma piuttosto che cedere all’ingenuo ottimismo che il suicidio possa cambiare davvero qualcosa, preferiscono assaporare il privilegio della sofferenza dandosi in pasto al mondo o dedicandosi all’amore, agli altri, a una nuova versione di se stessi. La fine del libro è scandalosa: “La domanda sul senso della vita è sbagliata e dovremmo rinunciarvi. La grande rivelazione non avverrà mai”. Prendiamola come provocazione, non alla lettera. Anche la stessa consapevolezza dell’impossibilità di risolvere il segreto dell’esistenza, e in questo c’è tutto il valore della filosofia, – parafrasando Camus – può riempire il cuore di un uomo.
Stefano Scrima
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Simon Critchley, Note sul suicidio, Carbonio editore, collana Particelle, Milano 2022