Sono stato il primo, su D la Repubblica a scrivere di Viola Di Grado, allora ventenne e al proprio esordio, con Settanta acrilico trenta lana (nel 2011 per Edizioni e/o, poi ripubblicato da La nave di Teseo come tutti i suoi libri). Un romanzo che colpisce ancora e del quale riporto la stessa recensione: una scrittura che ricorda la forza narrativa del Kitano immersa in una vasca di acqua gelata di poesia alla Bjòrk. Contaminazioni cinematografiche e musicali che non tolgono nulla all’originalità, ma scandiscono il ritmo di una storia solo in apparenza di tristezza infinita. Il romanzo racconta del rapporto tra Camelia, rimasta orfana di padre giovanissima, e la madre Livia: una sorta di attrazione “fetale”, una morbosa dipendenza alienata che le rende straniere in terra straniera. Perché la vicenda è ambientata a Leeds, Inghilterra, «una città in cui non comincia mai niente», immobile in una sorta di limbo vittoriano, in un lungo inverno senza fine dove le uniche luci sembrano essere quelle delle coscienze al neon del mondo esterno. Nella loro casa cadente si mette in scena un apparente inferno domestico di paranoie e ossessioni. Livia fotografa ossessivamente buchi nei tavoli e nelle tende e così via, Camelia invece traduce manuali di istruzioni per elettrodomestici, ossessionata dall’oblò della lavatrice. Un mondo freddo e silenzioso, scandito dal tempo immobile di un dialogo muto di sguardi, dove la bellezza sembra esclusa. Perfino i vestiti, da qui il titolo, sono «deturpati, tagliuzzati, contaminati con materiali estranei e maniche in più»: una chirurgia antiestetica, racconta l’autrice, una “forma di ribellione alla compattezza del mondo degli altri, come lo si percepisce quando si soffre. La moda è l’espressione più immediata della condivisione di un’identità. Per Camelia indossare i vestiti storpiati significa ribellarsi in modo masochistico a un mondo da cui si sente esclusa. L’inferno del settanta acrilico trenta lana è il luogo deforme del presente, in cui ogni cosa è del colore sbagliato”. Ed ecco a tanti anni di distanza -Viola Di Grado di strada ne ha fatta, quel suo esordio, che per primo avevo intuito, è stato tradotto in tutto il mondo apprezzato dai lettori e dalla critica internazionale: da “The New York Times” a “Le Figaro” a “Der Spiegel”.
In questo nuovo Fame Blu – già in corso di traduzione in inglese, tedesco, spagnolo, Catalano, portoghese- Viola di Grado ci consegna forse il suo miglior romanzo ad oggi: tagliente senza essere urticante, mainstream senza perdere una vocazione stream-punk, post-moderno ma senza perdere le coordinate soprattutto emotive di un presente che solo in apparenza sembra divorare la tradizione. Osa molto Viola Di Grado – soprattutto calando la maschera di una certa epigonalita’ con Isabella Santacroce, infine svelata. Le due autrici hanno preferito scegliere due strade diverse: Viola Di Grado quella del battuage -mi perdonerà il termine- di un romanzo ideato per il mercato internazionale, Isabella Santacroce quello del ritiro dalle mille luci della editoria di batteria, isolandosi alla ricerca stilistica e non solo di una letteratura che rimanga. Viola Di Grado lascia postumi, Isabella Santacroce lascia ai posteri. Ciò non toglie che Viola Di Grado mostri un talento che -se fosse scevro da certe semplificazioni tematiche da bestseller- risulterebbe molto più deflagrante di quanto lo sia già. Le tematiche che affronta – quelle di una città come Shangai simil Blade Runner almeno nelle intenzioni (“tentacolare e aliena”) tra futuro da “bolla cinese” e una tradizione europea ben radicata (si veda il film di Klaus Kinski Les fruits de la passion); quelle di una solitudine a due sbranata dalla passione delle protagoniste che (dis)velano l’attrazione “fetale” non di superare i limiti, come sembra volerci raccontare l’autrice dietro una sorta di cannibalismo erotico e un amore che in tempi fluidi attirerà più di un lettore..
Gian Paolo Serino
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Per giorni ero così soggiogata dalla giornata nella fabbrica tessile, da quel miscuglio strano di gioia fisica e confusione mentale, che non pensavo ad altro. La sua faccia severa, i genitali siliconati, il racconto dettagliato della nonna. Riuscivo persino a vedere le forbici da cucina, le lame robuste che si incendiavano sotto il sole autunnale mentre la nonna faceva un ghigno giallastro, e poi affondavano nella stoffa. Come se le avessi viste davvero. Era un ricordo di Xu, ma era diventato mio. Succede
questo se ami troppo.
Le sere successive parlammo a lungo al telefono, lei era un po’ influenzata e non si sentiva di uscire né che andassi a trovarla. Ci mandammo centinaia di video di gattini. C’era tanta tenerezza tra noi, rimboccata sotto la ferocia, dunque in fondo non dovevo preoccuparmi. Lei forse non mi era fedele ma non mi avrebbe mai fatto davvero del male. Mai. Mi dicevo questo. E ci credevo. Ma l’amore oscura i dettagli. Rende il tuo sguardo generico. Censura i segni che indicano l’avvicinarsi del pericolo.
Un pomeriggio mi regalò il catalogo fotografico di Zhang Lanpo. Scatti splendidi di piccoli feti, in bianco e nero, cullati da grandi scheletri in alcove di foglie. Volti bruciati con palpebre tumefatte, e nelle labbra sorridenti una gioia luttuosa. Eravamo nel parco di Jing’an, in mezzo a sculture surrealiste. Mollai il libro su una panchina e ci scattammo un selfie sotto un enorme secchio metallico, sospeso nel vuoto, da cui usciva una cascata di piccoli secchi.
Mi portò in un’altra fabbrica, più piccola, vicino all’M50, il complesso museale ricavato in un dedalo di magazzini fatiscenti. Scopare nelle macerie, nei luoghi che erano stati altri luoghi e poi altri ancora e poi avevano cessato di essere, era meraviglioso. Sdraiata nella polvere, avevo la testa vuota e leggera come un bicchiere di plastica. Quelli colorati, per la precisione. Da piccoli, io e Ruben bevevamo in bicchieri così. Storcevamo il naso per il sapore agro che assume l’acqua nella plastica, ma continuavamo a volerli, per il tripudio di colori. I bambini sono ossessionati dalla forma e indifferenti alla sostanza. Xu sorrideva mentre mi toglieva i vestiti e mi sistemava la testa sul gradino. Apriva la bocca, iniziava ad assaggiarmi.
L’amore non dovrebbe procurare cicatrici insensibili, più lucide e dure della pelle. Al massimo ferite blande, veloci a ripararsi. Come quelle che ti fai da piccola cadendo da un’altalena, quando ti lanci verso il cielo a gambe orizzontali e poi il cielo ti butta giù. L’amore non dovrebbe far male. Questo dicono le serie TV. Lì una relazione sbagliata produce al massimo scene più lente, con brani musicali più cupi e martellanti, che sembrano sottolineare i pensieri, ma che presto, al massimo in un pugno di secondi, porteranno ad altre scene e altri paesaggi. Quando riaprii gli occhi Xu era dentro di me.
Era parte del mio corpo. Tessuto nel tessuto. Un’infiltrazione. Gemeva, con impazienza. Le conficcai le unghie nella schiena e i suoi piccoli capelli sudati, simili a sanguisughe, mi scivolarono in bocca.
Dopo il sesso andammo a vedere l’arte, un po’ sudate. Decine di gallerie dentro edifici decrepiti, scale che portavano a stanze chiuse e vicoli ciechi. Donne dall’espressione libera dipinte sui muri, con lunghi capelli rossi che divampavano nell’aria come un incendio. Un negozio chiuso, in vetrina manichini senza volto vestiti in lussuosi qipao, le braccia in aria come per chiedere aiuto. Nella galleria più in fondo c’erano dipinti cinesi antichi su cui erano proiettate donne olografiche, capelli blu, che camminavano sui grattacieli o guardavano lontano, ipnotizzate da qualcosa, assenti. Mi guardai il polso per controllare l’ora, ma non portavo l’orologio ormai da un mese e al suo posto c’era l’impronta lucida e ferina dei denti di Xu. Un piccolo ideogramma che non comunicava nulla. Un ragazzo, in biglietteria, mi guardò il polso e disse: “Ehi, stai sanguinando.”
Il 27 gennaio, nel corso di un solo giorno, arrivò l’inverno. Il cielo divenne bianchiccio e il vento prese a soffiare freddo. Sul giornale c’era una foto di carpe nere in volo. Un muro di pesci, accorpati e lucidi come inchiostro, che saltavano dall’acqua verso una grande rete pronta a catturarli. Un altro scatto mostrava turisti sorridenti con il cellulare in mano, eccitati da quell’istante di vitalità sull’orlo dell’annientamento. Era un articolo sulla zuppa di pesce di Qiandao. Si tratta di una carpa argentata da allevamento, usata spesso in Cina per le zuppe a causa della sua testa particolarmente grande, che può pesare fino a quattro chili. Viene servita con tofu, bambù, coriandolo, prosciutto. Se i turisti superano l’immagine mentale di una testa di pesce con gli occhi spalancati che ti fissano dal fondo di un brodo lattiginoso, scopriranno una vera delizia.
Quella notte mi addormentai sul divano e mi svegliai con un suo messaggio. Diceva: 526. E poi: 25873. Osservai perplessa i numeri sullo schermo. Ogni volta che mi avvicinavo a Xu si frapponeva tra noi un nuovo filtro, un nuovo faticoso codice da decifrare. Risposi: ?? E lei: 58. Cercai su internet e scoprii che i cinesi sotto i quarant’anni utilizzano spesso i numeri in sostituzione di frasi che hanno un suono simile. Lo chiamano lingua marziana, ma esprime le cose più comuni dell’esperienza umana sulla Terra. 526: ho fame. 58: buonanotte. 25873: amami fino alla morte.
Il sabato successivo cenammo in una bettola vicino al mio hotel. Succhiammo un brodo scuro che odorava di disinfettante. Una cameriera splendida vestita di azzurro entrava e usciva dalla cucina. La fotografai da dietro, i capelli lucenti e il piccolo culo. Xu mi guardò giudicante e cancellai la foto. Per tutta la strada verso la metro non mi parlò. Quando le chiesi, come una bambina di sei anni, se mi amava ancora, rise debolmente. “Vai a casa,” disse tra i denti, non guardandomi in faccia. La notte dormii male e sognai le cosce di Xu simili a pesci, fradice e squamate, e io che le accarezzavo con tenerezza e paura. Alle 8 mi svegliai con la febbre. No: non ce l’avevo, il termometro misurava trentasei. Ero malata in sensi più sottili, irriconoscibili. Sul giornale la foto di una cattedrale sottomarina: sotto il lago di Qiandao, quello dei pesci deformi. Era un cimitero di un’epoca lontana.
Viola Di Grado