La nave di Teseo ha appena pubblicato In famiglia, il nuovo romanzo di Elena Basile, successivo a Una vita altrove (Newton Compton, 2014), finalista al Premio Roma, e alla raccolta di racconti Miraggi (Castelvecchi, 2018) tradotta in Belgio. L’autrice, nata a Napoli, vissuta in Africa, Canada, Portogallo, Ungheria, Svezia, nonché ambasciatrice d’Italia in Svezia (dal 2013 al 2017) e in Belgio (dal 2017 al 2021), tratteggia “da nonna Giulia in poi, un tenue filo, quello della vita” che “univa le donne in famiglia”. L’universo femminile custodisce quello maschile, in un binomio madre-figlia dove i maschi appaiono sfuocati. Nella realtà, che “scivolava via da un verso o dall’altro”, come nella “favola che persiste” gli uomini sono decisioni e giustificazioni delle storie delle donne, quasi a riempire “un tempo che non vogliamo nostro”. E nel “cammino sotto questa luna, ora beffarda ora clemente” Giovanna, Mario, Emanuela, Alfredo, Milena diventano “frammenti irriconciliabili”, “nota gaia e paradossale” di una replica. Il prologo avverte “Non ho risposte” quanto l’epilogo “Non ho domande” a riempire quella “proiezione umana” fatta di colori, bellezza, rancori, dolori, silenzi come “il filo degli anni che abbiamo tessuto e come gli affetti, una costellazione di ombre e luci, che esplode nell’animo.”
Claudia Caramaschi
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Se mi chiedessero perché, sarebbe proprio difficile rispondere. La luna è alta nel cielo. Piena e sorridente. La guardi di sfuggita e quasi ti vergogni. In un momento ti sfinisce. Il pensiero dell’altro, di quel che non sappiamo. Una luna chiara e sorridente. Ma la mia strada è costellata di sampietrini mezzi rotti e faccio fatica a camminare.
Meglio non guardarlo il cielo nero senza stelle. Respiro nell’aria fredda accelerando il passo. E non saprei spiegare il perché. Come tutto sia successo.
Come possa tornare a casa stasera, sì anche stasera, e non sapere come un giorno dietro l’altro sia passato. Una stolida incoscienza.
Se solo ricordassi.
Se solo provassi a chiudere gli occhi. A rivedere la vita come nella pellicola di un film che pian piano si srotola. Un’immagine poi l’altra fino a questa sera fredda, in cui rincaso e lo stupore mi brucia nello stomaco.
Non potrei spiegare il perché. Nell’universo si alternano il caso e le immutabili leggi. Caso e necessità… implacabili entrambi, penso.
Cammino alla cieca in questa strada polverosa e non capisco. Non so distinguere.
È successo e basta.
Mio marito è lì che mi aspetta in una casa troppo grande. Quante volte gli avrò detto che il vento soffia nelle stanze, gli spifferi si moltiplicano e persino il gatto si nasconde infreddolito. Ma lui è altrove. Non mi ascolta. Da quanto tempo ha smesso di vedermi?
Siamo rimasti noi. Emanuela e Alfredo sono in un’altra città. Quando chiamano è una festa. Ma è sempre un po’ ostentata. Non ce ne importa un granché ormai. Sono lontani dentro altre famiglie e noi siamo qui, un po’ un impiccio, un po’ un affetto che fa male. Lo sappiamo. Non può che essere così.
Certo potrei raccontarla in altro modo. Ma questo è il punto, ho perso il senso del “come”, del modo in cui qualcosa accade. Sono sotto la luna, da sola, senza aver nulla da spiegare.
Il medico mi ha detto mezz’ora di passeggiata al giorno. A ottant’anni bisogna fare attenzione. Contro il colesterolo l’esercizio fisico è la migliore medicina. Già, bisogna obbedire al dottore. Salviamola questa vita, questa povera vita che si restringe sempre più e si concentra alla fine, come d’incanto, in un istante. Quel che verrà dopo non si sa. Fa paura, come questa luna che splende per i miei occhi deboli nel cielo scuro. E non mi dispiace camminare per queste strade polverose di una città che ho dato per scontata. Che sapevo stupenda e di cui non mi accorgevo. La città cui si appartiene senza tante storie. Spiata nei suoi angoli nascosti, di una bellezza clandestina che i napoletani hanno un po’ stampata nei geni. Eppure la polvere e l’aria sporca, il chiasso nelle strade mi aggrediscono ogni giorno. La violenza è tale che appena uscita stringo i denti. Poi vado. Approfitto della gobba che mi si è formata sulle spalle e guardo per terra per non inciampare. Le battaglie infinite di noi ottantenni, nessuno ci riceve con una medaglia al valore. Dopo un po’ prendo coraggio ed ecco che già a Via Luca Giordano mi rilasso. Guardo la gente per strada, le ragazze che ridono tutte truccate, di una bellezza sfrontata e un po’ triviale, le signore ben vestite, coperte di cachemire dolce, rassicurante come secoli di storia borghese, e quelle dagli abiti ordinari, segnate dalla fatica. Che strana questa folla che mi passa accanto come in un film! Queste storie che si incrociano con la mia e spariscono chissà dove; ma io mi lascio distrarre solo per un istante e poi, la testa bassa, affretto il passo come mi ha ordinato il dottore. Ogni giorno fino a Piazza Vanvitelli e ritorno. Il mio dovere, il mio piacere: ormai ben poca, impercettibile, è la differenza. È la mia vita ristretta.
Com’è potuto accadere? È questa la domanda che è rimbalzata dalla sfera piena di questa luna, estranea e un po’ severa, che mi è sembrato si fosse posta così alta nel
cielo, così altera, solo per giudicare me, misera e ingobbita, e chiedermi “Giovanna, com’è successo?”. Risuonava a mezz’aria, la domanda. La udivo bene, a dispetto del traffico e dei clacson. Gli anni sono andati, come i figli e un matrimonio assente. Ci si abitua: il dolore schivato, i ricordi evitati, i dettagli che riempiono un tempo che non vogliamo nostro.
Elena Basile