Un libro denso, in tutte le possibili accezioni.
I capitoli macinano la storia offrendo al lettore rarissimi stacchi, con un andamento quindi “massiccio”, scandito da pochi paragrafi. Il racconto così va avanti come un rullo compressore che trascina con forza attrattiva ogni avvenimento. Una modalità, questa, affinata da Gianluca Di Dio, parmigiano ma residente a Bologna, di romanzo in romanzo. Partito da L’Emiliano innamorato, una “favola” dal sapore celatiano, è arrivato a questo potente, quanto difficile La Sublime Costruzione, edito da Voland (pagg. 224, € 16,00). Una storia che parla di lavoro attraverso la voce di Andrej Nikto, un profugo di guerra il cui paese è stato distrutto completamente. Andrej vive nella completa desolazione, dove l’unico desiderio è quello di abbandonarlo. Cosa che il protagonista e il suo fido amico Årvo fanno quando vengono caricati da una enorme corriera bianca che si muove verso Nord: porta maestranze a un cantiere dove si sta creando un progetto immane. La chiamano “La sublime costruzione”. È una torre che dovrebbe raggiungere babelicamente il cielo. Ma non importa tanto questo aspetto quanto il fatto che il cantiere promette lavoro, quindi la possibilità di una vita degna.
Il viaggio è il centro di questo lavoro di Di Dio, un viaggio simbolico e apertamente ripreso da quello di Ulisse. Di fatto Andrej passa attraverso cinque tappe riprese dal viaggio compiuto dall’eroe omerico.
Sergio Rotino
#
«Però da come me ne hai parlato prima, è chiaro che tu sia stato sopraffatto dall’angoscia nel leggerlo» mi dice l’autore quando ci incontriamo per questa intervista.«E pensare che mi sembrava di averci messo dentro una grande speranza…»
Che c’è, non posso negarlo. Però il viaggio di Andrej è attraverso l’oscurità, che sembra infinita. Anche se non è così. Ma non parliamo di questo. Parliamo del come hai pensato di utilizzare le traversie di Ulisse per La sublime costruzione.
«Allora partiamo dal fatto che ho iniziato a scrivere questo romanzo prima di Più a est di Radi Kürkk…»
Il tuo penultimo.
«Esatto. Mentre lo elaboravo c’è stato un cambio di rotta rispetto all’estetica della mia narrazione.»
Cioè?
«Nei libri precedenti il punto di partenza era il realismo. Il reperimento delle fonti, per così dire, avveniva sempre attraverso spunti di natura realistica. Anche in questo romanzo, in cui volevo parlare di lavoro, ho provato a cominciare dal realismo, con piccole storie vere che, come mio solito, ho provato a impastare, a tagliare con invenzioni e sottili menzogne. Ma non riuscivo ad andare avanti. Eppure ero convinto di dover scrivere un grande racconto epico, che avesse in sé un potente desiderio utopico, una grande speranza: il lavoro per tutti in un cantiere che non avrà mai fine.
L’utopia mi sembrava un punto necessario per la mia storia, non c’è niente di più grandioso dell’utopia, mi dicevo, tutti i capolavori più memorabili nascono da un’utopia, la stessa Commedia di Dante è un iperbolico affresco utopico, in fondo. Così ho provato a spostare un po’ l’attenzione, a cercare di capire quale fosse l’aspetto ineludibile per me, la cosa che riguardasse maggiormente il mio universo estetico in un classico che per eccellenza esprimeva una visione utopica indimenticabile come la Divina Commedia. E ho trovato che la fascinazione fulminante che mi arrivava da quell’opera stava nella sua irrealtà, nella sua esplicita e detonante carica simbolica. Quindi da quel momento ho cominciato a cercare simboli potenti e non più storie vere. Simboli della realtà in cui viviamo e che, per quanto mi riguarda, sono un modo di descrivere quella stessa realtà in modo estremamente più interessante e coinvolgente. Si trattava, quindi, a quel punto, di raccontare un’utopia col linguaggio del simbolo. Ho pensato a un’immagine simbolica di riferimento per il viaggio dei miei personaggi principali e sono arrivato, parlando di lavoro, alla figura del cantiere, un cantiere che però fosse perenne, mai finito, per realizzare una costruzione infinita e così gigantesca e immane da poter coinvolgere e riguardare tutti i viventi sulla terra. A questo punto, avevo uno dei capi della storia in mano, invece di puntare dritto al suo svolgimento e vedere dove mi portava, mi sono girato indietro e il mio pensiero si è andato ad annodare intorno a quella parola, viaggio, che era la parola con cui i miei protagonisti dovevano per forza confrontarsi per poter raggiungere la loro utopia. Ancora una volta mi sono rivolto ai classici e ai simboli, agli archetipi, e mi sono chiesto quale fosse e dove fosse, l’archetipo del viaggio. E la risposta era l’Odissea».
Mi ha colpito l’uso della lingua. Rispetto a molti tuoi colleghi, che preferiscono uno scrivere comunicativo, lineare, tu l’hai resa sempre più complessa. Sei partito scrivendo come un “narratore della pianura” per arrivare a una scrittura quasi barocca. Cosa ti ha spinto in questa direzione?
«Innanzitutto la scrittura per me, come penso per qualsiasi altra persona che ne fa il motivo trainante della propria vita, è un processo di maturazione, di formazione, che parte naturalmente dalla facilità per arrivare alla semplicità. Ecco, è lo stesso meccanismo che si attua coscientemente o incoscientemente nel diventare adulti, consapevoli. Si parte sempre da una fanciullezza dello sguardo che comporta l’imitazione dei genitori e degli esempi comportamentali che ci stanno attorno. Anche nella scrittura si parte dai propri antenati che per me, chiaramente, essendo emiliano, hanno nomi importanti come Boiardo, Ariosto, per arrivare ai più recenti Celati, Zavattini, Delfini ecc.
Il primo periodo della maturazione passa necessariamente da un fenomeno di appropriazione eimitazione. Poi però arriva il momento adolescenziale del rifiuto e della ribellione. Il periodo in cui, uscendo dalla “famiglia”, si sperimentano conoscenze, attrazioni e corrispondenze nuove, più libere. Questo credo sia il momento più importante, quello di una scelta di campo che non sarà certo definitiva, ma che segnerà profondamente. Penso che questa dinamica riguardi il linguaggio, soprattutto, perché è il linguaggio che crea i luoghi e gli eventi della narrazione.
Nel mio primo romanzo ero ancora in una fase imitativa. Mi è servita però per arrivare a definire una forma più mia e personale, a elaborare un mio vocabolario e una sua coerente espressione. Credo poi fortemente che Manganelli abbia ragione quando dice: “Lo scrittore (colui che maneggia oggetti letterari) è chiamato a dar testimonianza sul linguaggio che gli compete, che lo ha scelto, l’unico in cui gli sia tollerabile esistere, riconoscendosi nient’altro che un’arguzia del linguaggio stesso, una sua invenzione, forse i suoi genitali ectoplastici”».
Però questo ti comporta una maggiore attenzione a quanto metti su pagina, che porta a un rallentamento nel processo di scrittura.
«Io sono sempre stato lento e non solo nella scrittura, direi lento a prescindere. La mia vita è un convinto e perenne elogio della lentezza. Non credo sia cambiato molto passando da un linguaggio colloquiale a uno letterario, tutti e due nascono da una cassa armonica profonda da cui si pesca e in cui si deve andare a rovistare con pazienza speleologica.
La paura è sempre quella di non rispettare il suono puro della veridicità di una voce e questo riguarda il conformismo del linguaggio colloquiale così come l’oleografia del linguaggio letterario.
C’è da dire che in questi ultimi romanzi non adotto mai un linguaggio unico e preconfezionato, ma lo adeguo di volta in volta al personaggio che parla, quindi c’è sempre una commistione di registri che ritengo necessaria e vitale per una narrazione. In ogni caso per me la bellezza dello scrivere sta proprio lì: stare seduti davanti a uno schermo come fossimo davanti a un laghetto, aspettando pazientemente che la parola giusta abbocchi alla lenza. Si può essere più scriteriati e inetti?»
Più che altro direi controcorrente… Altra cosa che mi è sembrata molto presente ne La sublime costruzione sono i rimandi letterari. Non parlo dell’Odissea, che è innervata con la storia che racconti, ma di Moby Dick, per esempio.
«In realtà ho cominciato con il progetto spudorato e senza vergogna di continuare America, il primo romanzo di Kafka, interrotto al capitolo ottavo, Teatro naturale di Oklahoma.
Volevo parlare di lavoro perché, quando ho iniziato a scrivere questo libro, mi sembrava il problema sociale più importante. E America – dove il sedicenne Karl Rossmann, tedesco di Praga come Kafka, viene costretto dai genitori a emigrare negli Stati Uniti perché ha messo incinta una serva – parlava di lavoro proprio nella terra del sogno della scalata sociale per eccellenza. Il luogo dove erano nati tutti i problemi della crisi del 2008.
Non riuscivo a togliermi dalla testa una immagine di quel libro, di una forza e una bellezza sconvolgenti. Ecco, per me i libri si dividono in tre categorie: ci sono quelli che aiutano a sopravvivere; quelli che insegnano a scrivere; e poi tutti gli altri, belli o brutti a seconda dei gusti. Tra quelli appartenenti alle prime due categorie, ce ne sono alcuni che portano in sé delle immagini così deflagranti da non uscirti più dalla testa; America è uno di questi. A un certo punto il giovane Karl, il protagonista, dopo scoraggianti e paradossali licenziamenti ed esperienze di vagabondaggio insieme ad altri disperati, all’angolo di una strada, legge su un manifesto che, all’ippodromo di Clayton, si assume personale per il Teatro naturale di Oklahoma. Nel bando c’è scritto: “Tutti saranno i benvenuti”.
A Clayton, di fronte all’ippodromo dove avvengono le assunzioni, si imbatte nella scena di cui ti parlavo: su un podio lungo e basso, vede ergersi in piedi, fitte, l’una accanto all’altra, centinaia di donne vestite da angelo, con lunghe tuniche bianche svolazzanti e grandi ali sulla schiena. Tutte suonano trombe dorate che arrivano fino a terra, come nel giudizio universale. Ciascuna poggia i piedi su uno zoccolo che può essere basso o arrivare anche oltre i due metri, facendole sembrare altissime e sproporzionate. Ecco, questa direi che è stata l’immagine che ha dato il via alla narrazione del mio romanzo».
Quindi niente Moby Dick. Però viene anche in mente, in questo procedere in una notte perenne verso la luce perpetua data da lampade accese a giorno, La Divina Commedia. È una delle tante allucinazioni che mi hanno preso leggendo il tuo romanzo.
«Non sei del tutto in errore. All’interno de La sublime costruzione ci sono molti altri richiami letterari. Ma si tratta di suggestioni non completamente consce. È come quando a merenda mangi cioccolato e arance, se qualcuno si mette a studiare vicino a te sentirà entrambi gli aromi mentre parli. Diciamo che le uniche citazioni “programmatiche” e totalmente consce del libro sono America e Odissea, non a caso.
Credo infatti che questi due autori ciclopici siano l’alfa e l’omega della nostra cultura letteraria occidentale. Poi tutte le altre citazioni che chiunque troverà dentro al mio romanzo, sono il profumo dell’esperienza che ognuno mette nei propri libri inconsciamente, libri che senza scampo sono fatti un po’ di vita vissuta e un po’ di vita letta».
Il tema del lavoro da cui sei partito per scrivere il romanzo, non porta a un racconto gioioso… A colpire è però come nelle tue pagine questo si sia trasformato in un discorso forse più simbolico che allegorico. È forse l’unico modo in cui parlarne senza cadere nell’ovvietà e nella retorica del realismo?
«Per me era il problema sociale più sentito e importante. Poi, come sempre mi capita quando mi pongo un obiettivo concreto, andando avanti nella scrittura, questo evapora, sublima. A rimanere è solo l’essenza esistenziale del problema.
Il fatto è che in una condizione di azzeramento, di grado zero dell’umanità, come quella data all’inizio della storia, per riprendere a vivere, per riacquisire una dignità e un orizzonte vitale concreto, bisogna ricominciare dal lavoro. E poi c’è questa ingerenza inevitabile del mio pensiero e della mia esperienza, che tende sempre a sovrapporre e a confondere arte e vita – ma anche arte e lavoro, quindi pure lavoro e vita – così che ogni problema pratico diventa necessariamente esistenziale e ogni problema di realizzazione individuale diventa eminentemente pratico.
Comunque il discorso di base su cui mi volevo concentrare è che il lavoro, così come l’arte e la vita stessa, è una esperienza costruita da rapporti di potere. In questo senso l’Odissea è un grande registro di tutte le forme possibili di potere esercitate tra uomo e uomo e tra divinità e uomo.
Potere che può essere violento, sanguinario, feroce e ferale come in Polifemo, ma pure più subdolo e ipnotico, magnetico e mistificatorio come in Circe o Calipso.
È proprio dalla comprensione di una di queste forme di potere esercitato da un personaggio chiave del libro – la maga, la produttrice di pornografia – che si attua la trasformazione del mio protagonista, Andrej.
All’inizio appare come l’opposto di Ulisse, una sorta di uomo senza qualità, un uomo qualunque, un vero “nessuno”, come ben rimarca il suo cognome russo, Nikto».
È un personaggio che si lascia trasportare dalla vita senza altre ambizioni se non quella di evitare il peggio e di sopravvivere…
«Ma durante il viaggio, quando arriviamo al quadro della Corruttrice prodiga – la donna che ne La sublime costruzione rilegge il personaggio di Circe, riesce a comprendere il m
eccanismo di potere che tiene lui e tutti i compagni soggiogati nella gabbia dorata e incruenta costruita appunto dalla maga.
Si tratta di una forma di potere che il filosofo Giorgio Agamben descrive molto bene in un suo bellissimo saggio: Su cosa possiamo non fare.
Lui dice che “Il potere ‘democratico’ separa l’uomo da ciò che può non fare, anche se questi, a differenza degli altri viventi, è l’unico animale che può la propria impotenza”. Cioè: l’uomo può decidere di rifiutarsi di fare una cosa, può decidere che una determinata attività, un preciso ruolo sociale non fa per lui e che non ci si dedicherà mai. Ma il potere contemporaneo impedisce questa negazione attraverso l’illusione: facendo credere all’individuo di potere fare tutto.
Da qui il confondersi delle vocazioni, delle identità professionali e dei ruoli sociali che ammorba la nostra società.
“L’idea che ciascuno possa fare o essere indistintamente qualsiasi cosa non è che il riflesso della consapevolezza che tutti si stanno semplicemente piegando a quella flessibilità che oggi è la prima qualità che il mercato esige da loro”, dice ancora Agamben.
Su questa idea ho costruito la trasformazione del mio personaggio. Elabora questo pensiero alla fine del suo viaggio. Pensiero che diventa la sua Sublime Costruzione, cioè il senso, la ratio che gli permette di andarsene da Circe, di essere libero e di capire cosa vuole fare della sua vita».
Alla fine il cantiere di questa costruzione “sublime” cosa rappresenta per te?
«Il cantiere della Sublime costruzione rappresenta la vita ed è perenne perché riguarda l’eterno fluire delle vite dell’intera umanità, di ogni epoca e di ogni luogo.
È lì che si costruisce e prende forma la Sublime Costruzione, cioè il pensiero che desumiamo dalle azioni, dalle esperienze nostre e di chi ci ha preceduto. Il cantiere dove per tutta la vita continuiamo a elaborare una ragione per esistere – la nostra ragione per esistere, per trovare la forza di vivere, ciò che è la nostra personale Sublime Costruzione. Ma La Sublime Costruzione è anche la vita stessa che si rinnova, l’epifania con cui la vita si rinnova: la nascita, a cui Andrej assiste alla fine del viaggio. È questo il monumento all’umano, sorprendente e sublime, che si costruisce di continuo nell’eterno cantiere dell’esistenza».
Personalmente vedo il cantiere anche come una critica alla radice capitalista del nostro sistema.
«Riguardo a questo, il romanzo nasce sull’architrave concettuale fornita dal rapporto tra due parole: orfanità e utopia.
La storia scaturisce e inizia da una situazione di orfanità: il mondo di Andrej e Årvo non esiste più, è stato spazzato via da una lunga guerra; e procede verso la ricerca di un ideale utopico: il lavoro per tutti, in un grandioso cantiere che non avrà mai fine.
Da questi due poli si sviluppa tutta la storia che è poi un lungo viaggio di ricerca e d’avventura. E tutta la tensione narrativa deriva dal fatto che tra il concetto di orfanità e quello di utopia vi è un forte collegamento.
L’orfanità è un sentimento, una sensazione imprescindibile nella nostra vita di oggi, una condizione esistenziale strettamente collegata all’interiorizzazione del sistema capitalistico e del consumo che, creando continuamente delle necessità, crea delle mancanze e uno stato che alla lunga diventa di vuoto e mancanza perenne, mancanza a prescindere. Diventa un senso di orfanità delle cose, che presto si allarga a comprendere anche le persone e gli affetti, i rapporti sociali, trasformandosi in una condizione di surroga perenne: si deve trovare sempre qualcosa che sostituisca quello che manca o che ci viene fatto percepire come mancante, secondo un processo che potremmo dire di obsolescenza programmata e che non riguarda solo i computer o le cose ma anche i rapporti umani.
Da qui nascono due desideri. Uno basso: quello del consumo, appunto, che serve a riempire di cose i vuoti indotti dal sistema. Uno alto: quello di una Utopia, cioè di una passione per qualcosa di più grande, di più elevato, di irraggiungibile forse, ma che ha il potere di mettere pace alla sensazione di orfanità che ci trasciniamo dentro.
È il bisogno di una missione, che ci fa tornare a una fase staminale della vita in cui tutto è ancora possibile e dove tutte le direzioni sono ancora aperte».
Torno indietro all’Odissea, non perché non hai risposto alla mia prima domanda, ma perché è da lì che viene il tema del viaggio che sviluppi nel romanzo. Sempre dal poema omerico hai tratto le cinque storie centrali, i cinque episodi, portandoli verso il presente. Quale significato veicolano?
Come sempre succede quando riprendi in mano un libro letto tanti anni prima, così come quando incontri di nuovo una persona che hai perso di vista per tanto tempo, essendo cambiato tu e il tuo modo di percepire il mondo, in quel libro, in quella persona, non puoi fare a meno di scoprire cose sorprendenti e inaspettate. Così dell’Odissea, che per me era stata una lettura liceale, ricordavo fondamentalmente le peripezie di Ulisse. Ero convinto che queste rappresentassero il corpus, se non totale quasi, dell’opera.
In realtà, Ulisse racconta tutte le sue avventure in una notte, davanti ai nobili feaci e al loro re Alcinoo, con un lungo flashback che prende lo spazio di soli quattro dei ventiquattro libri di cui è composta l’opera. È solo un sesto di tutta l’Odissea. Già questo era piuttosto sorprendente. Poi c’è la grandezza e la complessità della struttura che, appunto, utilizzando tra gli altri espedienti un flashback, si prefigurava con prepotenza per quello che è: un’opera didattica e fondativa, che anticipa in modo vorticoso e direi pauroso le forme del romanzo e della narrazione occidentale.
Durante la lettura, ho avuto una sorta d’intuizione su cui ho fondato tutta l’elaborazione del romanzo, così come avviene in teatro quando un classico è rivisitato alla luce di un concetto che lo avvicina alla realtà del presente. Ho pensato che le più famose e memorabili peripezie di Ulisse (le Sirene; i Lotofagi; Polifemo; Circe; la discesa all’Ade) potessero essere lette come rappresentazioni allegoriche di particolari temi-problemi sociali nati e sviluppatisi ciascuno in un determinato decennio del Novecento e ancora attuali. Per esempio, le Sirene.
Nel romanzo le ho trasformate in un branco di pescatrici ipnotiche e bellissime, pronte ad accalappiare gli uomini per farli prigionieri e svuotarli, distruggerli. Ecco, questo a me ricordava il problema quanto mai attuale della parità uomo-donna, con la conseguente nascita del femminismo e della lotta anche aspra e intransigente portata avanti da quel movimento. Fenomeno che si accende negli anni Sessanta e che in qualche modo li rappresenta, a partire dal ’63, anno della pubblicazione de La mistica della femminilità, di Betty Friedan. Su di esso negli States studiano e si formano i primi gruppi di presa di coscienza femminista, che porteranno nel ’66, alla formazione del NOW (National Organisation for Women) con la Friedan come presidentessa.
Dopo le Sirene vengono i Mangiatori di loto: Ulisse, approdato con i compagni alle terre dei lotofagi, manda due uomini e un araldo a parlamentare con i rappresentanti di quel popolo, per capire se sono amici od ostili. Questi offrono subito il fiore del loto di cui si nutrono che ha evidenti effetti oppiacei. Gli araldi infatti non vogliono più tornare alla nave e vogliono solo continuare a godere dell’effetto di piacere e felicità offerto da quel cibo. Questo mi riportava agli anni Settanta, all’uso delle droghe e alla loro diffusione, tenendo conto che dai referti di polizia e dagli studi sociologici, nel ’74-’75 l’eroina comincia a comparire nel mercato illegale italiano in grande quantità.
Poi abbiamo Polifemo. Mi ricordava gli anni Ottanta. In Italia, a inizio decennio, nascono le prime palestre di cultura fisica e si afferma questo culto del corpo e dell’esteriorità, derivato fondamentalmente da un narcisismo, un egoismo e un individualismo crescenti nella società, anche come reazione al collettivismo estremo del decennio precedente.
Da qui arriviamo a Circe, la maga, che rappresenta problemi molto attuali: la mistificazione della realtà, l’inganno del potere… Il parallelismo con gli anni Novanta arriva facile, pensando alla discesa in politica di Berlusconi. Oltre a questo, nel ’94-’95 si assiste anche a un altro fenomeno sociologico importante: la nascita della pornografia amatoriale con diffusione via internet. Con Circe, che toccando con la sua bacchetta trasforma gli uomini in porci, questo ha un suggestivo collegamento.
Infine abbiamo la discesa all’Ade, che racconta allegoricamente il mondo degli anni Dieci del nuovo secolo, nato da quella tragica data dell’11 settembre con l’attacco terroristico alle torri gemelle. Data da cui prende corpo la stagione del terrore, con tutti i problemi che ne conseguono: l’affermazione della logica del martirio, il desiderio di morte per dare morte, l’apoteosi e l’instaurazione di un Regno dei Morti (viventi).
Ecco, è come se compiendo questo viaggio simbolico, attraversando queste situazioni allegoriche, i miei protagonisti si cimentino e facciano esperienza del problema fondante di ciascun decennio, assumendo su di sé la responsabilità di risolverlo o portare avanti un suo sviluppo.
Solo riappropriandosi delle esperienze del passato, riusciranno a sviluppare una vera coscienza di cosa sia la vita e una propria e individuale Sublime Costruzione.
E questo può avvenire solo attraverso un processo di disamina dell’inconscio collettivo, di cui fanno parte le esperienze e i racconti mitici dell’intera umanità. Racconti mitici che alla fine non sono altro che tasselli di quella grandiosa opera di autocoscienza portata avanti con sofferenza e abnegazione disperata, di decennio in decennio, dall’umanità.
Un viaggio nel tempo…
Ho voluto raccontare qualcosa che annulla il tempo o, perlomeno, lo scorrere del tempo secondo le consuetudini scientifiche normalmente avvalorate. Un viaggio che sta tra il fantascientifico, il metafisico e il surreale.