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Luis Gusmán. Il gemello

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Ho sempre avuto due passioni: il calcio e la letteratura.

Poi ci sono gli amori: mia moglie, i figli, i miei fratelli… ma le passioni, ovvero tutto quello che ci anima e che possiamo condividere con un numero imprecisato di estranei, per me, rimangono ancora queste due.

Così, il mio primo approccio con la letteratura latinoamericana è stato con Osvaldo Soriano, lo scrittore di Pensare con i piedi, de El Gato Diaz e Il rigore più lungo del mondo.

Dopo ho continuato a vagare per questa strada polverosa e deserta. C’è sempre il deserto nella letteratura latinoamericana, non solo il Sonora di Bolano, ma un deserto umano, dovuto ad un senso di angosciosa assenza. Anche nella Buenos Aires futuristica di Piglia si sente il tonfo dei passi, o nella Santa Maria di Onetti il dottor Díaz Grey quasi parla da solo. E poi, mi chiedo, cosa sia Alejandra, di Ernesto Sábato, se non una donna del tutto assente, epilettica, sonnambula. Ecco, i sonnambuli, coloro che hanno perso il sonno, un’altra cosa tipica della letteratura latinoamericana, la confusione, le notti interminabili in cui la morte striscia, si affaccia nel mondo dei vivi sospirando freddo.

Esiste la solitudine e poi la solitudine della letteratura latinoamericana. Non fa eccezione Luis Gusmán nel lungo racconto Il gemello, edito da Edizioni Arcoiris e tradotto da Loris Tassi.

Il grande Ricardo Piglia, nella bella postfazione a questo libro, dice che questo di Gusmán è un poliziesco in cui l’assassino, la vittima, il detective e il narratore sono la stessa persona.

Per quanto mi riguarda, Il Gemello è un poema. Non tanto per il lessico usato, che qui è molto crudo, quasi parlato, ma per il simbolismo ricorrente. Il Padre, il Paraguaiano, Gardel, l’oro, il seme, il sesso. Tutto obbedisce ad una simbologia che Piglia spiega con dovizia e che il lettore può facilmente intuire.

Il racconto non segue una struttura precisa, sono immagini che si susseguono, si accavallano e che trovano un senso solo all’interno di questo reticolato simbolico.

Se proprio dobbiamo tirare fuori una trama, possiamo dire che si tratta di una storia familiare dove un ragazzino cresce con una madre molto bella dalla vita dissoluta, che si prostituisce un po’ per follia, un po’ per piacere e un po’ per necessità.

La figura del padre è centrale, forse è il cantante di tango Carlos Montana, oppure il Paraguayano, o uno dei tanti Pepe.

Poi ci sono gli episodi, quelli di violenza, di sordida e squallida vita di strada, la pedofilia, la povertà. Ma sarebbe ridicolo voler disciplinare un racconto così ostinatamente ribelle come Il gemello. E proprio perché poesia, esso si permette di trasgredire ogni regola narrativa, ogni meccanica del racconto.

Quando Gusmán scrive:

È meglio che continuiamo a peccare fino alla morte senza dimenticarcelo mai…

Con un cappotto di pelle mammina gira da sola per le strade, cerca Montana nei caffè notturni, quando è l’alba torna triste alla pensione del porto, la stanza tiepida e rosa, le foto sul comodino e la passione, allora si siede vicino alla finestra, per ascoltare sempre lo stesso disco, la stessa voce «com’è triste ricordare».

Sembra una poesia de I cani romantici e non esistono davvero prostitute, disgraziati, violenti o menomati, ma sono tutti innamorati delusi cui la vita ha giocato un tiro tremendo.

È un mondo di sonnambuli, come dicevo, di gente che si guarda dentro il riflesso di uno specchio sporco e non si riconosce. Un mondo pieno di spiriti, di credenze popolari, di galline sgozzate e di sesso, di seme, di vita senza quel senso di colpa con cui il cattolicesimo fustiga gli europei da generazioni.

Pierangelo Consoli

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Luis Gusmán, Il Gemello, edizioni Arcoiris, Pp. 108, euro 12

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