Il 26 maggio arriverà in libreria Ferrovie del Messico, terzo libro e primo romanzo di Gian Marco Griffi. Lo pubblica Laurana Editore, con una postfazione di Marco Drago, nella collana fremen curata da Giulio Mozzi. Il romanzo, ambientato principalmente a Asti nel febbraio del 1944 (ma con qualche puntata in Germania e larghi episodi nell’America latina degli anni Trenta), racconta l’avventura di Cesco Magetti, milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria inquadrato nella Stazione di Asti, che riceve l’ordine di compilare una mappa delle ferrovie del Messico.
Nell’estratto, che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, si espone la «biografia spicciola» di Bardolf Graf, impiegato amministrativo presso la Divisione ferroviaria della Orpo, Dipartimento suicidi statali assistiti (Bahnschutzselbstmordepolizei) e motore inconsapevole di tutta la storia raccontata nel romanzo.
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Biografia spicciola di Bardolf Graf
Bardolf Graf nacque a Wolfach, nella Foresta Nera, il diciotto maggio millenovecentodue. Quelli di Wolfach lo chiamavano ebete, patatucco, ’sto scimunito, ein blöder Kerl, tanto che all’età di dodici anni era stato chiamato il rabbino Rosterlig «affinché gli togliesse la sciocchezza». Ma quello per tutta risposta sentenziò le seguenti parole: «Non c’è niente da fare. In nome di Dio nessuno può essere venuto al mondo tanto felice, neppure il Mashìach in persona». Gli rimase così la sciocchezza.
S’ingobbì, Bardolf, verso i sedici. E si ritrovò con una scalogna che gli rendeva le mani simili a quelle di un cadavere rimasto a mollo per tre mesi in uno stagno. Ma appariva ai più, e a chi lo aveva sempre tra i piedi, specie agli amici e ai cugini, avvolto da un’aura di serenità imperforabile, un acciaio temperato che lo teneva al riparo da quel senso di profondo malessere che un ben vigliacco dio ci ha donato in quanto razza superiore. Una malattia che lo rendeva inviso a tutti i Fischer e a tutti i Weber di questo lurido mondo, abituati a smignottare dalla mattina alla sera per guadagnarsi un gruzzolo degno di questo nome, talmente ossessionati dai soldi, questi figli di un impero decadente, questi pinzocheri arricchiti, da schifarsi per ogni forma di felicità improvvida (specie se derivante da sentimenti puri come nel caso di Bardolf). Cercavano di vivere, i miserabili lurchi, con la goccia di felicità che cade insieme alla rugiada di Dio una o due volte l’anno, riservandosi di gustarla solo nelle feste più importanti, quelle che consentivano la sveglia alle dieci del mattino e un pranzo con la migliore bottiglia di vino. Ma Bardolf. Lui era il male. Così infernale, condannato a provare gioia per un cielo stellato, per le nubi temporalesche, per cirri e cumulonembi, per gli animali da fattoria e da grondaia, amante degli insetti dei coleotteri degli scarafaggi e persino dei raffreddori (che ti fanno restare a casa difronte al camino a pregare, a leggere libri d’avventura e a giocare a carte).
E patatuccava avanti e indietro mangiandosi le unghie, con lo sguardo da badalucco per cui tutti ormai lo conoscevano (e i più lo evitavano come la peste, tanto che fu difficile trovargli un lavoro che gli permettesse di campare).
Ma Bardolf Graf era davvero un ragazzo d’oro, sitibondo di vita, talmente buono e disponibile che a venticinque anni si era già convertito sette volte: lui, cattolico per nascita, era stato due volte protestante, due volte ebreo, due volte testimone di Geova e una volta, anche se per due sole settimane, ateo. Possedeva la tessera di tutti i partiti politici e pregava cinque volte al giorno, non solo banali tefillòth, vigorosi modè anì lefanècha al mattino o stanchi hashkiveinù la sera, ma paternostri a ripetizione, atti di dolore ed eterni riposi infiniti, uno per ciascuna delle persone passate a miglior vita che aveva avuto la fortuna di conoscere. E santificava tutte le feste, il Natale e il Rosh haShanà Lailanòt, celebrato specialmente dai contadini ebrei insediatisi nei dintorni di Wolfach, che sarebbero in seguito finiti a Dachau. Insomma magnificava la grandezza del Creato, Bardolf Graf, in tutte le sue manifestazioni. […]
Amava i temporali, Bardolf, e sovente fuggiva sulla collina più alta della zona, dove si sentiva libero, per lunghe camminate o ripide discese da far impallidire gli scalatori professionisti. Più d’ogni altra cosa, ovvero al pari d’ogni altra cosa, amava i treni, i binari, si faceva quindici chilometri a piedi per raggiungere la ferrovia più vicina.
E a quelli che gli chiedevano cosa detestasse lui rispondeva niente, amo le mie mani bozzolose e il mio naso adunco, i recinti e i boschi, le darsene e i mattugi, i pastori e i libri, amo i mormorii notturni e i bisbigli che mi destano nel cuore della notte e amo gli alambicchi e le mattonelle di casa mia, i crogioli gli essiccatoi e i cannelli dardifiamma, amo la carta sì ho molta carta, telata oleata pergamenata filigranata vergata e zigrinata e amo i cappelli le réclame e i necrologi davvero tantissimo mi fanno impazzire e amo la goffratrice l’offset e la policilindrica sì amo anche gli artropodi che conosco sì conosco migliaia, milioni, di odonati megalotteri e dermatteri e miliardi di planipenni e lepidotteri e anopluri e strepsitteri, che grande compagnia mi fanno, almeno credo, e amo gli alberi piegati dal vento, il vento, gli alberi da frutta e i loro frutti e per ciascuno di questi le singole parti, ’al ha’etz we’al perì ha’etz, almeno quelle che conosco, vediamo, amo molto il pericarpio la polpa borè perì ha’etz la scorza il mallo e il picciolo e amo i verbi imbozzacchire bacchiare e imbacare e mi piacciono i vasi cribrosi e legnosi e il felloderma e l’alburno e senza dubbio apprezzo moltissimo il gettamento l’esserci e la vecchiezza, sì proprio la senescenza e stravedo per i denti i denti i denti e ho perfino fotografie di appendiabiti palloni orpelli perché amo anche loro e godo dell’odore del refrigerio e dell’ombra, ripulisco caldaie tegghie pentole e piattelli perché amo tutti questi oggetti e onoro mio padre e mia madre specie quando li sento mugolare nella stanza a notte fonda se pensano che stia dormendo, e amo dormire, svegliarmi, andar dal dentista, amo anche templi e pagode e le cattedrali delle quali poi amo pergamo sacello lunetta e cappella e non potrei non amare i campanili e ancora pinnacoli ventarole e campane di montagna soprattutto dove ci sono il ranuncolo la potentilla e il mirtillo orecchia d’orso insieme al maggiociondolo al non-ti-scordar-di-me o miosotide che-dir-si-voglia e all’achillea borsa di pastore. […]
Sospirava per le nascite e le morti, passava le giornate in ufficio e le notti a caccia di temporali. Ah, il superiore potere della natura! I lampi, i tuoni, la grandine che si sfracella al suolo squarciando l’asfalto, generando pozze cui la primavera donerà vita! Questa è la nostra terra, la nostra religione! Che m’importa della libertà, se Dio è in ogni cosa? Quando mi viene da piangere rido! Perché il mondo è meraviglioso e a me resteranno da vivere ottanta, novant’anni al massimo, e voglio viverli alla grande, con lo sciroppo per la tosse nella tasca dietro.