Elliot Edizioni, nella traduzione di Valentina Dragoni, pubblica per la prima volta in Italia la scrittrice Heidi James con il suo romanzo più recente Lo specchio sonoro. Un coro ancestrale, narrato in stile greco, dall’India coloniale all’Inghilterra meridionale, da Ada a Claire, accompagna e tormenta Tamara, il personaggio principale di questo intimo romanzo. Si intrecciano le relazioni madre-figlia e quelle di classe a un ritmo che spiazza nel (ri)tratto storico e sociale del Regno Unito del XX secolo. E la violenza, sia privata che collettiva, è manifesta nei dettagli del vivere ordinario.
I capitoli sono brevi, si alternano tra le vite delle tre donne – Tamara, Claire, Ada – creando movimento di spazio e di tempo. Il linguaggio è mezzo di reinvenzione nell’evocare gli echi di altre storie che si annidano nella mente, nel passato che è presente, nel collettivo che è individuo.
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Tamara
Era ora che facesse fuori sua madre. Ci ha provato un paio di volte – se si conta la sua nascita e poi le bravate del tubo di scarico. C’è quasi riuscita quando aveva quindici anni: la faccia battezzata con un occhio nero, la mascella gonfia, i denti dondolanti, ma stavolta reagisce con forza e si ritrova a cavalcioni sopra sua madre con le mani avvinghiate al suo collo. Stringendo anche. Ah! Pure quella volta era dopo Natale. Bisogna ridere, altrimenti si muore piangendo.
Ci credereste che è diventata qualcuno? Ha molto da perdere. Possiede un appartamento con un balcone e una cucina componibile. Piante in vaso. Ha una laurea. È la responsabile della comunicazione di una banca. Ha un proprio ufficio, fuori dal quale siede un team di quattro persone. Non è un team
molto numeroso, eppure… È bravissima nel suo lavoro. Sa come compiacere, sa cosa le persone hanno bisogno di sentire, vogliono sentire, devono sentire. È coerente con il messaggio. Protettrice del brand. Balle. Falsità. E allora? fa soldi, non dipende da nessuno.
A Natale non era sola. Era a cena con amici – Pav e Toby, Sara e Harriet, Gio e Aisling. Indossava un maglione in cachemere blu di Alexander McQueen e pantaloni di Kooples. Aveva portato gustosi regali presi da Liberty e champagne e cioccolatini Rococo. Non è una fallita. La sua foto dei piatti ha avuto ottanta “mi piace” su Instagram.
Eppure non è ancora inserita. Legge i libri che tutti amano; compra i vestiti, segue le persone che vuole emulare sui social, spende ore a sfogliare i giornali e a guardare su Pinterest o Instagram ciò che le altre donne indossano, fanno, mangiano, sono. Non sa chi è realmente. Nemmeno alla sua età. Trent’anni. Cerca su Google “Una buona vita cos’è?” e “Come vivere bene” e “Qual è il senso della vita?”. Non ottiene mai una risposta soddisfacente.
Si sente in imbarazzo, confusa come un’adolescente lunatica. Forse perché è fuori dal tempo, anacronistica; soffre di nostalgia per un mondo in cui non è nata, ma al quale le è stato insegnato ad aggrapparsi. Cresciuta in parte dai nonni e in parte dai libri, esiste per metà in un mondo evocato da Noel Streatfeild ed Enid Blyton: pedalate in boschi liberi da ombre, a cena in stanze rivestite di pannelli in legno, silenzi rotti dal cinguettio degli uccelli e non dal rombo degli altoparlanti. Il ticchettio degli orologi, le merende mattutine, i dolci da tè. Non poteva aver ereditato questo mondo da nessun’altra parte se non dalle sue letture e dal voler essere altrove, in qualche luogo lontano dalle mense scolastiche gratuite, dalle uniformi di seconda mano, dai cappotti ammucchiati sul letto durante
l’inverno e dall’unico paio di scarpe.
Eppure lo odia: non importa quanto ci provi o quanto spenda, non vi appartiene, arriva sempre troppo tardi. È sfibrante. Dovrebbe arrendersi, ma continua a provarci e così finisce per odiare tutti gli altri perché sono come sono. A proprio agio. Chiaramente odia di più se stessa. Si vergogna di sé. E di conseguenza non guarda nessuno negli occhi, apparendo ambigua, subdola. Sente di avere qualcosa da nascondere, qualcosa di sporco e malato. Sente di non essere abbastanza brava, desiderata. In pericolo. Ma dovremmo essere noi a vergognarci. Dovremmo, no?
Tua madre ti ha abbandonata nel bosco, come Hänsel e Gretel? Ti ha intrappolata in una torre con solo una finestra e la tua matassa di capelli? Come in tutte le fiabe, c’è sempre una madre cattiva o morta. Non è un segreto, e certo non è una novità. Incolpa la madre. È colpa sua. È colpa nostra. Ci siamo abituate. Abbiamo le spalle larghe. Da bambina viene in giardino tra una poppata e l’altra. Infilata nel passeggino come una delle scimmiette di Harlow. Un esperimento. Viene nutrita ogni quattro ore esatte. Ha già imparato a non piangere, dato che sua madre la ignora. Non deve essere viziata: viziare un bambino è come scavarsi la fossa con le proprie mani. La bambina è arrabbiata con sua madre. La
bambina desidera la madre.
Di notte si sveglia e sua madre se n’è andata. Non è più una bambina ormai. È troppo grande per i pannolini e si becca una sculacciata che le insegni ad essere pulita. La madre l’ha portata a vivere in un appartamento molto lontano dai nonni e dalla loro casa sovraffollata e chiassosa. Sua madre non è a letto né sta ascoltando i dischi accoccolata sul divano di velluto dorato che ha comprato a credito, non è sul balcone a fumarsi una sigaretta, non è in bagno. La bambina è sola. Prova a chiamare la nonna, ma non ne sa niente di come si fa il numero, solo che la voce della nonna o del nonno è lì a fluttuarle nell’orecchio come fumo quando le passano la cornetta. Il suono del segnale di chiamata ronza a vuoto. Non ci sono. È sola. Morirà. Accadono cose brutte ai bambini lasciati soli.
È in trappola nella morsa cieca del panico. Corre verso la porta d’ingresso, è chiusa a chiave. Si guarda di nuovo intorno nell’appartamento. Il bagno, la camera di mamma, la sua, il salotto, la cucina. Guarda sotto i letti. Apre l’armadio della biancheria nel corridoio. Spera che sia una specie di terribile nascondino. Non riesce a trovarla. Piange. Singhiozza, inghiotte muco e lacrime salate. Trascina la sedia della cucina per il corridoio fino alla porta d’ingresso e si arrampica con cautela. In punta di piedi per raggiungere la maniglia. Per girare il pomello, che le scivola dalle mani umide; la porta si apre, ma giusto una fessura perché la sedia ne blocca la via. Tira e tira, troppo giovane, troppo presa dal panico per scendere e spostare la sedia. Troppo presa dal panico per sapere cosa fare. Troppo piccola per capire che lasciare l’appartamento sarebbe comunque più pericoloso.
Chiama tra la porta e lo stipite: «Signora, signora vicina, mamma se n’è andata. Signora, aiuto». Forse chiama un paio di volte, forse sta urlando. Sta urlando. Le fa male la testa. Si fa la pipì addosso, ma solo un po’. La vicina non arriva, ma la mamma sì, alla fine, materializzandosi nel corridoio come per magia. La mamma prende la bambina in braccio e la rimette a letto.
«Shh» dice, «sono andata via solo per due minuti, sciocchina. Che storie che fai. Quanto casino. Lo posso avere un attimo di pace o no?». È questo il momento in cui la bambina capisce che la madre
riesce a piegare il tempo con le parole.