Con L’Elbano errante, in uscita per i tipi di Mondadori, Pino Cacucci ritorna con un poderoso romanzo storico che, come da programmatico sottotitolo, racconta vita, imprese e amori di un soldato di ventura e del suo giovane amico Miguel de Cervantes.
La storia, infatti, prende le mosse dal 1544, quando Khayr al-Din, noto come il Barbarossa, sbarca con i suo corsari turchi sull’isola d’Elba. Qui, Lucero e sua sorella Angiolina si accingono ad andare a pesca di calamari: il primo viene ferito, la seconda rapita. Il ragazzo diventerà un soldato di ventura e un “duellante imbattibile”, animato da un’inestinguibile sete di vendetta, la sorella la favorita del sultano di Algeri. Lucero viaggia, passa dall’Elba a Bologna e Firenze, poi Siviglia, Napoli, Malta, Venezia, poi ancora in Messico, entra nei Tercios e conosce il giovane Miguel de Cervantes, che scriverà il Don Chisciotte, e ne diventa amico. Questa, per sommi capi, la trama del sorprendente romanzo di Cacucci che, in controtendenza con quanto siamo abituati di solito a leggere – si configura come un’immensa macchina narrativa, che mette insieme storia e storie, avventura, personaggi, poesia, religione, battaglie e duelli senza alcun risparmio. L’Elbano errante è una lettura a cui è necessario abbandonarsi per farsi guidare fino alla fine.
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«Non puoi pensare sempre e solo alla vendetta, Lucero» gli diceva sua madre accarezzandogli i capelli, ora corti e ispidi. «La tua vita merita di più. Non devi gettarla a mare avvelenandoti il sangue così, figlio mio.» La casa era luminosa, il fuoco crepitava nel camino, e sul focolare a carbonella bolliva la zuppa di pesce, il cui profumo appetitoso pervadeva la cucina. «Mamma, non posso. Perdonami, ma non ti obbedirò. Ormai la mia vita è questa.» Adele scosse la testa ed emise un profondo sospiro. Lucero la guardò. Una lacrima le era scivolata fino alla punta del naso, e brillava come una stella. Scattò a sedere sulla branda. Scrutò nel buio. Sul momento non riconobbe la stanza. La sua mente, il suo cuore e ogni cellula del suo essere volevano restare ancora in quella cucina calda e accogliente, con il capo appoggiato sul grembo della madre, in un tempo che, visto alla distanza, aveva perso ogni connotato di privazioni e fatiche e appariva idilliaco e lieto, prima che quelle belve distruggessero tutto, anche la speranza. Prima… Avrebbe dato qualunque cosa per riaddormentarsi e rientrare nel sogno.
Gettò la coperta di lato, si alzò con le tempie che pulsavano di furore incontenibile, andò alla bacinella e vi immerse la faccia. Dalla finestra penetrava un chiarore incerto, l’aurora si annunciava su una Bologna lattiginosa di nebbia e umidità. Armeggiò nella semioscurità e aprì la porta: l’aria fredda lo schiaffeggiò. Respirò la nebbia a pieni polmoni. A torso nudo, con indosso i soli mutandoni al polpaccio, uscì nel cortile. Raggiunse il pozzo e tirò su un secchio d’acqua gelida. Se lo rovesciò in testa. Si passò le dita sul cranio: i capelli che si era fatto tagliare corti due giorni addietro erano sempre folti, ma da bagnati non offrivano alcuna resistenza alla mano. Prima, gli ricadevano sulle spalle. Se un turco ti coglie di sorpresa da dietro, non deve avere la tua chioma da afferrare per meglio tagliarti la gola. Guardò il cielo: grigio e senza spiragli di sole nascente. Tornò dentro. Agli allievi era proibito allenarsi da soli nella sala d’arme. Cinque rintocchi di campana echeggiarono ovattati nella nebbia, dalla torre del Comune: a quell’ora nessuno lo avrebbe saputo. Indossò la camicia di cotone bianco e i pantaloni, ai piedi mise un paio di calzari di pelle morbida che usava per allenarsi sul pavimento di legno lucidato, ottimi per non produrre alcun rumore.
Si avvicinò a passi felpati, ma le vecchie assi scricchiolavano sotto i suoi piedi. Ogni tanto si fermava ad ascoltare i suoni esterni. Raggiunta la rastrelliera, impugnò la striscia bolognese da scuola, con punta arrotondata e senza filo, che gli era stata assegnata: era l’unica con la guardia dell’elsa forgiata al contrario, per proteggere la mano sinistra anziché la destra come tutte le altre; la osservò nella penombra. In realtà lui non aveva ancora potuto usarla nei duelli durante le lezioni, stava ultimando il corso primario con la spada di legno e il brocchiero, in alternanza alla daga, sempre di legno.
Si portò al centro della sala. Saluto: lama davanti al viso. In guardia: spada tesa e braccio destro – visto che era mancino – dietro la schiena. Molti spadaccini tenevano il braccio libero in alto, a controbilanciare il peso dell’arma e per maggiore equilibrio. Lui preferiva tenere il palmo della mano libera dietro la schiena, pronto a sfoderare la daga, perché già pensava ai duelli veri, quelli all’ultimo sangue.
Gli allievi che frequentavano i corsi avanzati, con lame vere anche se spuntate, dovevano vestire completamente di bianco perché i loro erano considerati dal punto di vista formale “duelli al primo sangue”, dunque le vesti bianche servivano a rivelare immediatamente la prima ferita subita, che decretava la fine del duello. Si concentrò. Battuta: immaginò di toccare la lama dell’avversario. Più volte. Battute di assaggio. Riporto: ruotò la spada con un movimento circolare del polso, lama a contatto con quella avversaria… affondo, assalto, parata, disimpegno, fendente di finta a destra, nuovo assalto, stoccata! Si muoveva come un danzatore: leggero, quasi senza produrre alcun rumore, nella sala vuota si udivano soltanto i sibili della lama e il suo respiro. Un respiro mai affannato: regolare, da atleta allenato. Il battito di mani echeggiò nel silenzio assoluto: un lento applauso ironico Lucero si paralizzò nell’atto di menare un altro fendente. Una figura si stagliò nel tenue chiarore della finestra, mentre avanzava verso di lui. «Bravo. Complimenti.»