Oscura, tenebrosa, tormentata, ma non priva di luce: questa è la poetica dello scrittore, poeta, filosofo e pittore tedesco naturalizzato svizzero Hermann Hesse, autore del celebre romanzo Siddharta e vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1946, che nella sua vastissima produzione letteraria, che conta quindici raccolte di poesie e altri trentadue libri tra romanzi e raccolte di racconti, non ha mai fallito nel toccare nel profondo l’anima umana, risultando lo scrittore di lingua tedesca del XX secolo più letto nel mondo.
E le sue meravigliose poesie ritornano nelle librerie italiane nella nuova antologia per Guanda Editore Poesie, traduzione e curatela di Mario Specchio.
Dopo tre poesie iniziali, che danzano e suonano sulla carta con i loro passi di inchiostro come fossero pezzi di Chopin, appare uno scontro tra luce e ombra o, meglio, viene dipinta una notte nera e desolata, punteggiata da rare stelle, ma stelle che esistono.
Come Hesse scrisse in una lettera del 1932 al dottor Jordan: «Nelle mie poesie ho lasciato grande spazio alla tragica problematicità dell’essere umano, ma è anche espressa una fede… fede non in un senso della nostra vita e del nostro soffrire che si possa formulare dogmaticamente una volta per tutte, ma nella possibilità che ha ogni anima di afferrare per via di intuizione tale senso e di liberarsi e di elevarsi al suo servizio. […] L’insieme della mia vita e della mia opera, a chi la riguardasse dall’alto, si presenterebbe non come un’armonia, bensì come una continua lotta per un soffrire continuo ma non privo di fede».
La vita umana, per Hesse – che ha visto ed ha subito il trauma degli orrori delle due grandi guerre mondiali –, è tristezza, solitudine, silenzio, morte, distruzione, assenza di pace, continuo mutare, incomunicabilità. Ma è anche sogno, stelle, giardini in fiore.
La poesia di Hesse vuole rappresentare questa vita, vuole cercare di ritrarla attraverso echi di suoni, sibili di vento, frusci di foglie, la malinconia dei notturni di Chopin, riflessi di ricordi che vibrano nell’aria della sera, l’apparire e scomparire di leggere immagini femminili, appena appena acquarellate.
Ma non è qui che si ferma: Hesse legge nell’uomo il desiderio ( dal latino de-sidera, mancanza di stelle) di quella luce, lontana nel cielo, il desiderio di una terra perduta. Comprende che noi siamo i re spodestati dell’infinito di cui parlava Pascal nei suoi Pensieri, esseri sospesi tra l’infinito e il nulla.
«Tacevi. Anch’io; la muta lontananza si dissolveva in luce. Nessun segno di vita, se non nel lago una coppia di cigni. […] Siamo i re senza terra, passione silente, che si brucia nel proprio fuoco. […] E su di noi, prostrati senza parole, il corso delle stelle…»
Nel silenzio della pagina bianca, la musica e la filosofia di Hesse emergono come un canto: dipinge uomini piccoli, soli, fragili, mutevoli, in una notte eterna, immersi nel fango, ma con lo sguardo pieno di speranza verso l’alto, follemente desideranti delle stelle.