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Darío Sztajnszrajber anteprima. Filosofia in undici passi

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Migliaia di persone seguono gli interventi pubblici del filosofo, docente universitario e famoso divulgatore filosofico argentino Darío Sztajnszrajber. Edizioni Tlon porta in Italia per la prima volta un suo saggio filosofico che è anche romanzo, Filosofia in undici passi, con la traduzione di Francesco Fava.

Una indagine impertinente che riesce nel suo intento: divulgare sui mezzi di comunicazione di massa ciò che viene insegnato nelle aule universitarie.

La filosofia a portata dei lettori, in un intreccio rivelatore di undici celebri frasi con unidici filosofi della Storia.

Pensiero e azione, repressione e resistenza, sangue e amore, storia e speranza, sono alcuni dei concetti che si alternano nella proposta romanzata di decostruire la vita quotidiana per giungere alla comprensione dell’origine di ciò che ci viene dato.

Claudia Caramaschi

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Frasi. Frasi filosofiche. Testi dissezionati che, fatti a pezzi, fabbricano un luogo comune. La filosofia contro il senso comune si presenta, in modo apparentemente contraddittorio, attraverso la ripetizione isolata di frasi celebri. Frasi che tutti ricordiamo e che sembrano tradire la problematizzazione filosofica: o non è forse vero che una frase può diventare un jingle, un’etichetta, una zolletta di zucchero, un tweet? La filosofia non dovrebbe andare esattamente nella direzione opposta, evitando di privilegiare una confezione, un ritmo, un’esperienza estetica? La filosofia non si pone l’obiettivo di destabilizzare ogni comodità, ogni benessere, ogni facile comprensione immediata? Non è una pratica emancipatoria che infrange ogni industrializzazione del pensiero? E le frasi filosofiche, così confezionate, non sono forse pura industria?

Sì e no. È chiaro che limitarsi alla frase isolata può essere un’operazione priva ogni fondamento critico. Ma cosa si intende per frase isolata? Ridurre tutto il pensiero di Cartesio a «Cogito, ergo sum» o quello di Nietzsche a «Dio è morto»? E in che senso ridurre? Supporre che questo o quel pensatore abbia semplicemente sostenuto una singola idea, senza cimentarsi in un approfondimento più esteso del resto della sua opera? È evidente che una simile riduzione contrasta con l’obiettivo filosofico di aprire i concetti e generare percorsi di pensiero alternativi. Ma, da questo punto di vista, non si rischia il riduzionismo anche quando in un’aula universitaria si accantona l’evento filosofico a vantaggio della ripetizione di nomi, citazioni, date, o della maestria nell’andare a scovare il commento del commento del commento?

Di nuovo, che cosa significa frase isolata? Il problema non è di natura ermeneutica, cioè relativo all’interpretazione della singola frase. Il punto è creare le condizioni per far sì che ogni frase apra a una molteplicità di interpretazioni diverse. Il rischio, con le belle frasi filosofiche, è che chiudano le porte alla possibilità di farsi domande, esattamente come chiude il nostro sguardo un concetto naturalizzato nel nostro dispositivo sociale. O come accade quando diamo per scontato che ci siano zone dell’esistenza che non vale la pena mettere in discussione, o quando assumiamo come nostre le idee, le pratiche e i valori che altri hanno bisogno che noi creiamo.

Bisogna ammettere che stilare una lista delle frasi filosofiche più famose della storia sembra riprodurre automatismi che la filosofia dovrebbe mettere in discussione. Non tanto nel contenuto, quanto nella forma: la necessità di fabbricare elenchi per dare ordine alla vita; una soggettività che ha incorporato i concetti di gerarchia, di concorrenza, di prestazione. Che si tratti di frasi o di canzoni, di calciatori o di desideri per il compleanno, oppure di nomi di vecchi amori, il contenuto della lista non è mai ciò che conta. Ciò che conta è che ci sia una lista, è la “listificazione” generale dell’esistenza. A quel punto è del tutto indifferente con cosa riempiamo la lista, purché non sia visibile quello che c’è intorno, e soprattutto purché non sia visibile che quello che c’è intorno rimane fuori dalla lista e che potrebbero esserci altre liste, che presupporrebbero ordini molto diversi.

D’altronde, è altrettanto vero che le frasi filosofiche tutto producono fuorché una pacificazione, dato che la loro formulazione provoca in prima battuta, come minimo, uno straniamento. Non si può rimanere indifferenti di fronte alla frase: «So di non sapere». Ci chiama in causa. Ci fa chiedere: ma quindi, so oppure non so? La mera presenza della frase attiva un gioco di parole che è sempre un gioco del pensiero, un gioco che, come ogni gioco, emancipa il senso comune dal suo procedere unidirezionale. La frase provoca un effetto, suscita una domanda ed è in quell’atto che qualcosa di filosofico accade. Oppure la frase di Derrida: «Non c’è niente al di fuori del testo». Impossibile, non può essere vero che esista solo il linguaggio, eppure non c’è altro modo di relazionarci con le cose se non per mezzo dei segni. Allora anche soltanto il gesto assume valore, perché mette in moto la necessità di comprendere l’inverosimiglianza della frase, la sua provocatorietà, persino la sua stupidità (nel senso dell’associazione etimologica di “stupido” con “stupefatto”, collegata in un certo senso con lo “studio”, nella misura in cui studiare ci rende stupidi, perché ci pone in una distanza polemica rispetto al senso comune). Ci spinge a chiederci: perché? Che cosa ha voluto dire? Come mai non ci avevo mai pensato?

Le frasi filosofiche, quindi, danno luogo a una situazione apparentemente paradossale: nella loro dimensione mainstream, di massa, si introduce una piega che allontana il mainstream dai suoi luoghi abituali. Potremmo persino parlarne in termini di esigenza politica, quella di sottrarsi a un binarismo in cui, per un verso, ciò che è “di massa” è condannato alla riproduzione del senso comune mentre, sull’altro fronte, le pratiche filosofiche tradizionali vengono tenute al riparo da ogni possibile contaminazione. Un mondo duale è sempre stato una grande scappatoia farmacologica. Ricordo sempre il primo manuale di filosofia che ho preso in mano. L’epigrafe diceva più o meno che, sebbene tutti siamo dotati di una capacità razionale, non tutti possiamo fare filosofia. Qui partiremo esattamente dal presupposto contrario, recuperando la convinzione socratica: tutti possiamo fare filosofia, anche senza saperlo. In alcuni ragionamenti, quando facciamo un determinato tipo di analisi o ci poniamo certe domande, tutti ci ritroviamo a fare filosofia anche se in quel momento non ce ne rendiamo conto.

Per questi motivi, isolare una frase può anche significare che la frase, con il suo ritmo, la sua capacità simpatetica, la sua efficacia retorica, la sua forza, comincerà a propagarsi attraverso i neuroni per contaminarci. Ce ne sono alcune più incisive di altre, certo, ma è altrettanto vero che ci sono lettori più inclini di altri, o realtà sociali più sensibili di altre. L’aspetto davvero interessante delle liste è farle esplodere, metterne in evidenza la natura contingente. Ci dovrà pur essere una ragione adeguatamente fondata che ha portato alla scelta di queste undici frasi e non altre. O no? Forza, andiamo, si spieghi…

Sì e no. Qualsiasi lista è arbitraria. Non esiste una ragione oggettiva, eccettuato il fatto che le abbiamo selezionate in quanto sono frasi significative in relazione a un aspetto dell’opera di un determinato filosofo. Naturalmente sono frasi molto conosciute, sebbene in alcuni casi non siano la frase più famosa del pensatore in questione: ci sono frasi di Marx più diffuse di «Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria», o di quella sull’amicizia attribuita ad Aristotele. Le frasi lasciate per strada sono molte di più rispetto alle undici selezionate. Ce ne sarà forse qualcuna la cui assenza è imperdonabile?

La lista ha dovuto poi confrontarsi con altre frontiere: quella del genere letterario (con l’annosa polemica riguardo al canone filosofico: sarebbero potuti entrare Jorge Luis Borges e Franz Kafka, oppure varie frasi incisive di moltissimi film?), quella dell’equilibrata rappresentatività storica (vizio accademico: una lista che copra tutte le diverse epoche filosofiche), quella dell’originalità (qui abbiamo scelto di ampliare l’orizzonte, includendo indistintamente frasi autentiche, attribuite o dubbie). Frontiere che in alcuni casi abbiamo valicato e in altri no, tenendo però sempre ben fermo un punto: ci interessa la frase, non l’autore. O meglio, l’autore ci interessa solo nella misura in cui ci aiuta ad aprire nuove idee su ciò che la frase mette in discussione. Il nostro focus però è sulla frase. Questo volume non si propone come un’analisi sociologica sulle condizioni di produzione di una determinata opera, tutt’altro: abbiamo smontato le opere per isolare la frase e vedere che cosa ci apre.

Il libro si muove su vari registri. Abbiamo cercato di mettere in gioco tutto quello che ci attraversa quando facciamo filosofia. Le frasi si intrecciano con la deriva di un personaggio che, a partire da un evento scatenante, si vede costretto a scappare. Forse, la filosofia non è altro che una fuga permanente: ogni volta che raggiungiamo un qualche tipo di comodità suona un allarme e il corpo batte in ritirata. Scappare non è andare avanti ma ritirarsi. Da che cosa, ci ritiriamo? Da cosa fuggiamo? Se la risposta rapida è “dalla morte”, la risposta alternativa è altrettanto veloce dato che, lo sappiamo tutti, si tratta di una fuga senza senso. In ogni caso basta tornare all’imperativo che incessantemente ci martella con la necessità di credere che la vita abbia un senso, ed ecco che subito ci mettiamo in movimento. Reagiamo. Di fronte allo stato delle cose, reagiamo. C’è sempre uno stato di cose, prima. Nulla comincia da zero. C’è sempre qualcosa di pregresso a cui rispondiamo. Ma il pregresso ha un suo ordine. Forse, se scappiamo via da un ordine è solo per poi scappare via anche dall’ordine successivo, e la filosofia non è altro che quello stato permanente di fuga infinita.

Il nostro personaggio fugge attraverso la città di Buenos Aires. È angosciato. L’origine concreta dell’angoscia esistenziale non è mai importante, perché la caratteristica dell’angoscia è che nulla di concreto la racchiude. Tuttavia, è dalla quotidianità più immediata che promana la domanda. Per un motivo che non è mai importante, il nostro personaggio casualmente era lì e casualmente è stato costretto a scappare. Una fuga che sarebbe potuta avvenire in qualsiasi altro luogo diverso dalla città di Buenos Aires. Ma la filosofia è una tensione creativa tra locale e universale, tra territoriale e illimitato. Non crediamo nell’esistenza di filosofie nazionali, ma al tempo stesso riconosciamo che non esistono categorie filosofiche che non siano situate. Di conseguenza, questa è la deriva di un soggetto che può snocciolare frasi filosofiche sulla linea d della metropolitana, oppure in una pizzeria, o al cimitero della Chacarita, nel bel mezzo dell’avenida General Paz o in una piazza di Villa Urquiza. Un soggetto la cui problematica ontologica è immersa fino al collo nella storia recente dell’Argentina. Roberto Esposito dice che ciò che la filosofia italiana ha di proprio è il fatto di avere sempre cercato di disappropriarsi. Che cosa avrà di proprio una filosofia argentina che non voglia ricadere negli essenzialismi?

Facciamo filosofia a partire dalla finzione letteraria, ma anche in senso tradizionale. Abbiamo analizzato le frasi, le abbiamo spiegate, argomentate e controargomentate, cercando di capire testi e contesti, ma soprattutto attivando i conflitti che quelle frasi generano. Conflitti che di solito si cristallizzano in due posizioni nettamente divergenti, che finiscono poi per soccombere di fronte all’irrompere di una terza posizione. C’è sempre un altro. Un altro rispetto all’altro che non è l’altro. Cioè, rispetto all’altro che il pensiero binario identifica come tale. Qui non c’è superamento dialettico, bensì decostruzione. Il terzo pratica sempre la decostruzione affinché il dispositivo si smonti. Queste tre posizioni dialogano tra loro nel corso dell’intero libro, come se avessimo scisso il nostro essere nelle sue ininterrotte esasperazioni. Il libro è incessantemente percorso da un dialogo a tre, come se l’interiorità si plasmasse attraverso i suoi costanti conflitti. Interiorità? Qua dentro abitano in tanti. E in conflitto. E non necessariamente qua dentro.

Ecco perché scommettiamo su una filosofia ostinatamente orientata a rompere un binarismo che non è altro che un monologo. Un monologo che crea la propria stessa ombra. I fantasmi però dissolvono la linea di demarcazione tra luce e ombra. Un fantasma non è un essere umano che non ha portato a termine il processo della morte, né un morto che cerca con ogni mezzo di ritornare in questa vita. Definizioni del genere non sfuggono al binarismo e concepiscono la vita e la morte come due momenti statici e chiusi in sé. Il fantasma dà fastidio e fa paura perché decostruisce tutti i binomi e mostra la contaminazione impura tra i due poli. Cioè, ci mostra che non siamo altro che fantasmi: è solo questione di gradi.

Questo libro è popolato di fantasmi. Di individui, di cittadini, di dimenticati. Di una società fantasma: di diritti, di esclusioni, di violenze. Nessuno parla se non a partire da un luogo e tutti proveniamo da un luogo. E non ci sono cause, ma tracce. Uno stato di cose è sempre una traccia, a partire dalla quale i fantasmi lasciano a loro volta le loro tracce. Anche le frasi sono tracce che lasciano una traccia. Non siamo altro che tracce. Cioè, la presenza come assenza. Cioè, la fuga.

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